Convivenza
G.I.M. Triveneto e Bologna
Thiene (VI), 6-8
dicembre 2002
L'appuntamento
dei gruppi G.I.M. di Verona, Trento, Padova e Bologna è stata una
tre giorni oltre ogni utopia, per sentire che la pace
è nelle nostre
mani,
essa ci è stata consegnata da grandi testimoni come don Tonino
Bello e don Primo Mazzolari.
Ti
proponiamo nelle prossime righe le riflessioni di Leo
e le parole dei profeti che ci
hanno ispirato nelle nostre condivisioni!!!
Continuiamo a sperare e
r…esistere contro la guerra e la rassegnazione!
Creare
primavera di pace
I
giovani e la pace nelle nostre mani
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La
pace non è più un’utopia
quando
in tanti ci crediamo e ci
giochiamo la vita!
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La
necessità dei corpi
Dicembre,
venerdì 6, sabato 7, domenica 8 ho partecipato alla convivenza
dei Gim di Bologna,
Padova
e Trento
(un BigGim come li chiama qualcuno). La convivenza si è svolta a
Thiene: una cittadina vicina a Vicenza nel ricco, opulento,
laborioso Veneto (leggere quest´ultimo periodo con tutto il
sarcasmo di cui è capace un irriverente, romagnolo gaudente). Il
tema dei tre giorni passati assieme era un qualcosa che aveva a
che fare con la pace. Qualcosa come "Creare primavera di
pace" o "La pace nelle nostre mani": il rischio è
che anche noi facciamo l´abitudine a certe idee e che poi
diventino solo sterili slogan. Per fortuna non è stato così,
spero non lo sia mai. Non è stato così perché qualcosa, meglio,
qualcuno è venuto a darci una mano. Non fraintendetemi non sto
tirando in ballo il trascendente: quando dico qualcuno dico don
Primo Mazzolari, don
Tonino Bello e, sopra tutti, dico noi stessi.
Sì,
perché la pace è nelle nostre mani quando al costruiamo, e la
costruiamo noi, e la costruiamo tutti i santi giorni, e la
costruiamo passo dopo passo, passi veloci e passi lenti, passi
sicuri e passi incerti, forti e traballanti, nostri, soprattutto
passi nostri. Abbiamo vissuto la mattinata di sabato in piccoli
gruppi (sei, otto persone) lasciandoci stimolare da scritti di
Mazzolari e Tonino Bello: dovevamo riuscire a dire la nostra
perché qualcosa potesse incominciare a fiorire. Uno dei
comandamenti dei contadini del Movimento Sem Terra brasiliani è
«abbellire gli accampamenti con fiori (...)» poiché anche la
bellezza è un bene comune e non un privilegio di pochi. Ed a
incominciare a fiorire sarà (era, è) quell´albero di cui noi
siamo rametti piccoli e fragili ma che ha grandi radici saldamente
piantate nel futuro. Don Primo e don Tonino, nostre radici di
futuro. Nel mio gruppo di condivisione siamo arrivati ad intuire
che la pace si costruisce nella ferialità. La pace festiva,
quella fatta di marce, fiaccolate, adesione a campagne (momenti di
festa, appunto) va santificata tutti i giorni con ogni nostra
azione, con ogni nostro gesto. Quindi conoscerci, incontrarci,
raccontarci, ascoltarci è stato il nostro atto di ferialità. Nel
gruppo non ci conoscevamo ed il presentarci agli altri ci ha
riempito buona parte del tempo concessoci: è stato il nostro modo
di creare la pace, di sperimentare un modo nuovo di fare società.
E poi è stato tutto un tripudio di pacche sulle spalle, strette
di mano, abbracci, soprattutto abbracci. Nella celebrazione finale
lo scambio del "segno di pace", inevitabilmente un
abbraccio, sembrava non voler finire mai. C´era (c´è) bisogno
dei corpi, necessità di andare oltre quelle convenzioni sociali
che fanno dell'altro uno sconosciuto. Ci siamo abbracciati forte
perché non ne possiamo più di vivere chiusi in noi stessi anche
se, ci dicono, è meno rischioso che aprirsi all´altro. Lo
abbiamo fatto e continueremo a farlo, perché siamo fermamente
convinti che il primo pronome personale non sia io, ma noi.
Nelle
condivisioni dei vari gruppi, più o meno esplicitamente, la
necessità dei corpi è stata costante. Ci siamo guardati negli
occhi, ci siamo sdraiati gli uni accanto agli altri, abbiamo
tenuto le mani di altri nelle nostre, le abbiamo esaminate, ci
abbiamo scritto sopra, abbiamo condiviso il pane da noi stessi
spezzato. Speriamo di essere riusciti a tracciare una crepa in
quella corazza di indifferenza che ci portiamo appresso tutti i
giorni. Mi chiedo se ne è valsa la pena. Mi rispondo che per uno
scopo simile ne vale sempre la pena. |
Sabato
pomeriggio, don Paolo
92 anni ed
una talare, il sottanone dei preti di una volta, con almeno 41
bottoni. Don Paolo è un prete di una volta in
quanto è nato una volta ed ha attraversato
quasi tutto il novecento. Ci dice, modesto, che la sua storia
merita di
essere
tramandata poiché ha avuto la fortuna di affiancarla a quella
di don Primo Mazzolari. E´ venuto per
parlarci di quest´incontro ma non sembra intenzionato a farlo.
Ci parla di ciò che ritiene più importante in
questo momento. Ci parla di come va il mondo
e di perché va così (geopolitica) e di come dovrebbe andare
(speranza) e di come realizzarlo (profezia). Lo
incalziamo a parlarci di lui e don Primo,
dell´incontro che, per sua stessa ammissione, gli ha cambiato
la vita. Lui ci parla della sua vita. Ci racconta
le difficoltà di essere parroco con gli
ultimi, di essere considerato un prete rosso, di andare controcorrente
perché così impone il Vangelo. Dal comizio in piazza dopo le
elezioni del ´48 alla casa di accoglienza per
migranti aperta nella sua ultima parrocchia.
Ha un modo di parlare forte e passionale che ci coinvolge e
ci rapisce al racconto. Ad un tratto si
accorge che è ora di andare. Gli regaliamo il libro "Perseguiteranno
anche voi", «Oh bella! Cosa vuol dire `anche´», ed una
bandiera della pace, «La appenderò alla mia
finestra». Applauso scrosciante, un gimmino
di vecchia data lo ricorda come il più sentito e spontaneo che
ricordi. Mentre lo salutiamo
qualcuno gli allunga una busta con un´offerta, la rifiuta.
Sale poi in macchina e sparisce oltre il cancello. Dopo due minuti
l´auto ritorna, ne scende don Paolo che
restituisce la busta di prima che qualcuno
gli aveva infilato in una tasca. Ci saluta e, `stavolta, se ne va
davvero.
E don primo?
Non ci ha detto nulla di lui. «La mia unica
fortuna è stata incontrare don Primo Mazzolari» ci ha detto,
poi ci ha raccontato la sua storia. Dai frutti si
riconosce l´albero. Dai vostri frutti
riconosceranno le radici del vostro albero. Don Primo Mazzolari
radice di futuro.
Leo (il profe) |
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Inseriamo a seguire due
brevi schede sulla vita dei profeti che ci hanno
accompagnato durante la convivenza. Inoltre,
sono disponibili tutti i testi che abbiamo utilizzato per i
laboratori di approfondimento, con i seguenti temi:
Città,
Orizzonti, Noi, Vita, Insieme, Volontariato, Interesse,
Avvento, Lontani, Incarnazione, Tu, Arcobaleno.
Il tutto, a
formare la condizione basica per la pace: CONVIVIALITA'
Segui il nostro
itinerario attraverso la parola chiave della convivenza:
C
o n v
i v i
a l i
t à |
Don
Primo Mazzolari
Don Primo Mazzolari è nato al
Boschetto, frazione di Cremona, il 13 gennaio 1890 da
genitori legati alla terra da motivi di lavoro e di
atavico attaccamento. Ben presto, nel 1899, la famiglia,
che si componeva di due figli, Primo e Peppino, e di tre
figlie, Colombina, Pierina e Giuseppina, si trasferì a
Verolanuova.
Qui Primo Mazzolari rimase ben poco: a dieci anni,
seguendo la vocazione sacerdotale, entrò nel seminario di
Cremona dove proseguì gli studi fino all’ordinazione
che gli venne data da monsignor Giacinto Gaggia il 24
agosto 1912. Dopo pochi mesi fu inviato come vicario a
Spinadesco, e subito dopo, richiamato in seminario a
Cremona come insegnante di Lettere. Scoppiata la Prima
guerra mondiale, vi partecipa con il fervore dei giovani
in quel momento. Congedato nel 1920 andò parroco a
Bozzolo, provincia di Mantova, ma diocesi di Cremona,dove
cominciò ad assumere posizioni di difesa dei diritti dei
poveri. Nel 1922 venne nominato parroco di Cicognara, «il
paese delle scope». Qui iniziò la sua opposizione al
fascismo. Nel 1932 fu inviato nuovamente a Bozzolo e nel
1949 fondò e diresse il periodico «Adesso» la cui
pubblicazione fu sospesa nel 1951. Nel 1957 predicò la
Missione a Milano, chiamato dal cardinal Montini. Con
l’elezione di Giovanni XXIII entrò nella chiesa una
ventata nuova e le idee di don Primo ebbero piena
cittadinanza.
Il 5 febbraio 1959 venne ricevuto in udienza privata da
papa Roncalli: l’accoglienza che egli ebbe dal
Pontefice, come disse al ritorno a Bozzolo ad amici e
parenti, lo ripagava di ogni amarezza sofferta. Morì il
12 aprile 1959 nella casa di cura San Camillo di Cremona.
Ma le sue idee camminano ancora. |
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Don
Tonino Bello
Don Tonino Bello nacque ad Alessano (Lecce) il 18 marzo
1935. Fu ordinato sacerdote nel 1957 e nel 1982 divenne
Vescovo di Molfetta, Ruvo, Giovinazzo e Terlizzi,
condividendo la sua abitazione con alcune famiglie di
sfrattati.Lui contagiava i giovani e chiunque incontrava,
con il suo grande amore per la vita e per Cristo, con
semplicità e umiltà, con coerenza ed allegria. Il
Vescovo che amava la "Chiesa del grembiule",
ovvero la Chiesa semplice, facile, povera, sperimentò ben
presto la difficoltà di farsi capire su questa lunghezza
d'onda evangelica, sulla quale una parte del clero,
stentava a sintonizzarsi. Ma non fece difficoltà a
comunicare con i giovani, che tanto amava, i quali
capirono immediatamente quanto e come, questo piccolo
uomo, stava cambiando le coscienze della gente. I
poveri poi erano il fulcro dell'attenzione di don Tonino,
tanto che li aveva messi sullo stemma all'ingresso del
vescovado e ben presto furono al centro di un progetto
pastorale che coinvolse tutta la sua diocesi. Ma non solo,
la povertà che lui predicava alla sua Chiesa non era
retorica, astratta. Era una povertà che lui
stesso incarnava, nello stile di vita di ogni giorno e
rappresentava la misura di ogni sua azione. Si pensi che
non teneva per sé nemmeno la congrua di vescovo, che
donava ai poveri, agli ultimi a chi aveva bisogno, e alle
volte anche a certi strozzini che stavano rovinando le
famiglie. Per
questo e per altre iniziative fu attaccato molto
ferocemente da certe frange della Chiesa e del mondo
laico, ma lui, impassibile, rimase là a disposizione di
tutti, accanto agli operai delle Acciaierie Pugliesi che
rischiavano il licenziamento, agli immigrati e alle
persone colpite duramente dalla guerra, ai giovani, in
perenne ricerca di sé stessi, ai quale parlava, parlava
tanto. Don Tonino morì per un male incurabile, ma la sua
morte non fu giorno di lutto e dolore ma di gioia, di
festa per l'inizio di una vita nuova. |
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Il
futuro non viene pensato da Dio come continuità rispetto al
presente.
Non
c'è fedeltà ai suoi progetti che non richieda strappi.
Non
c'è fede che non postuli la disponibilità a mutare radicalmente
i piani dell'esistere.
Non
c'è Chiesa che possa trincerarsi nell'esigenza di essere uguale
a ieri per salvaguardare la propria identità.
C'è,
nella storia, una continuità secondo ragione, che è il futurum. E' la continuità di ciò che si incastra armonicamente,
secondo la logica del prima e del dopo. Secondo le categorie di
causa ed effetto. Secondo gli schemi dei bilanci, in cui, alle
voci di uscita, si cercano i riscontri corrispondenti nelle voci
di entrata: finché tutto non quadra.
E
c'è una continuità secondo lo Spirito, che è l'adventus.
E'
il totalmente nuovo, il futuro che viene come mutamento
imprevedibile, il sopraggiungere gaudioso e repentino di ciò che
non si aveva neppure il coraggio di attendere.
In
un canto che viene eseguito nelle nostre chiese e che è tratto
dai salmi si dice: «Grandi cose ha fatto il Signore per noi: ha
fatto germogliare i fiori tra le rocce!». Ecco, adventus
è questo germogliare dei fiori carichi di rugiada tra le
rocce del deserto battute dal sole meridiano.
Promuovere
l'avvento, allora, è optare per l'inedito, accogliere la
diversità come gemma di un fiore nuovo, come primizia di un
tempo nuovo. Cantare, accennandolo appena, il ritornello di una
canzone che non è stata ancora scritta, ma che, si sa, rimarrà
per sempre in testa all' hit
parade della storia.
Mettere
al centro delle attenzioni pastorali il povero, è avvento. E'
avvento, per una madre, amare il figlio handicappato più di
ogni altro. E' avvento, per una coppia felice e con figli,
mettere in forse la propria tranquillità avventurandosi in
operazioni di "affidamento" con tutte le incertezze che
tale ulteriore fecondità si porta dietro, anzi, si porta avanti.
E'
avvento, per un giovane, affidare il futuro alla non-co-pertura di
un impegno sociale in terre lontane, all'alea di un servizio
umanitario che, se non è mai ricompensato sul piano economico,
qualche volta non gratifica neppure su quello morale.
E'
avvento, per una comunità, condividere l'esistenza del
terzomondiale e sfidare l'opinione dei benpensanti che si chiude
davanti al diverso, per non permettere infiltrazioni inquinanti
il proprio patrimonio culturale e religioso.
Per
Antonella, mia amica, è avvento abbandonare le lusinghe della
camera sportiva e, dopo aver frequentato l'Isef, farsi suora di
clausura. Per madre Teresa di Calcutta avvento è abbandonare la
clausura e "farsi prossimo" sulle strade del mondo.
«Ecco
come è avvenuta la nascita di Gesù» (Matteo 1,18): per
promuovere l'avvento. Dio è partito dal futuro.
(Don Tonino Bello, Ascolta la Parola)
Coincidenze
ovvero
le gioie dei poveri
Quella
notte ero salito su di un vagone di seconda classe. Con i pochi
viaggiatori che imbarcava e con i tanti scompartimenti vuoti a
disposizione, quel treno per Roma era molto comodo per me,
soprattutto quando, non avendo avuto tempo per prepararmi di
giorno, ero costretto a studiare di notte. Quella volta, poi, ero
particolarmente preoccupato. La mattina seguente avrei dovuto
tenere la relazione di fondo in un convegno importante, e contavo
proprio su quelle otto ore di viaggio per organizzare il mio
discorso. Mi ero già sistemato in uno scompartimento vuoto e
avevo appena tirato le tendine, dopo aver sparpagliato sui sedili
libri e riviste, quando sentii scorrere il portello, ed un signore
sulla trentina mi chiese con un sorriso: "Scusi, lei non è
il Vescovo di Molfetta?". Non feci in tempo ad accennargli di
si, che replicò soddisfatto: "Che bella fortuna! Ora vengo
qui da lei e cosi, chiacchierando, la notte passerà in un
baleno". Pensavo che la freddezza con cui mostrai di
accogliere la sua proposta lo avrebbe scoraggiato. Ma quello,
nonostante il fastidio che mi si leggeva chiarissimo in faccia,
dopo qualche minuto fece irruzione nel mio rifugio con due pesanti
valigie, e io fui costretto a ritirare gli appunti sparsi qua e la
sui sedili di velluto, in attesa, speravo, che il mio importuno
interlocutore si potesse addormentare. Attacco subito il discorso,
dopo essersi seduto difronte a me. Parlava a ruota libera e, benché,
io gli replicassi con monosillabi amari, dilagava come un fiume in
piena. Mi disse che era un marittimo, e che andava a raggiungere
la sua nave ancorata a Livorno. Era scappato a casa per due
giorni, poiché la più grande delle sue bambine aveva fatto la
prima comunione. Mi fece vedere le foto di famiglia, mi spiava
l'espressione del viso, e pretese il mio giudizio perfino sulla
bellezza di sua moglie. Mi confidò che le voleva un bene da
morire, che quando poteva le telefonava ogni sera, anche
dall'Australia, e che, nonostante le mille seduzioni di tutte le
città portuali del mondo, non l'aveva mai tradita. Chiusi i libri
e mi misi ad ascoltarlo: cominciava ad interessarmi. Non aveva
certo un'aria bigotta. Parlava con incredibile naturalezza di
donne, di attrici, di moda, di calcio, di politica, di musica
rock… passando da un argomento all'altro senza forzature con una
straordinaria carica di simpatia. Crepitavano nelle sue parole
sarmenti di antichi focolari. Mi disse che amava la vita. Che
l'unico rimpianto era quello di aver scelto un mestiere cosi
triste che lo teneva otto mesi su dodici lontano dalla famiglia.
Ma che doveva ancora continuare per qualche anno, se il Signore
gli dava salute, perché si era comprato un appartamento delle
case popolari e doveva finire di pagarlo. Che anzi aveva
intenzione di acquistare un campicello per camparsi la vita. Che
lui non ci teneva ad arricchirsi dopo che aveva visto la miseria
dell'Africa sui cui porti sbarcava spesso con la nave. E che la
ricchezza più grande è la salute. E che non c'è nessuna cosa al
mondo che possa darti tanta gioia quanto l'amore della tua donna,
la buona riuscita dei figli, e una partita a carte in casa con gli
amici nelle sere d'inverno. Il treno cadenzava i ritmi del mio
interlocutore, e io mi andavo chiedendo se il soprassalto di
tenerezza che provavo nell'ascoltarlo derivava dal ridestarsi di
archetipi sepolti ormai nella mia coscienza, oppure dalla sorpresa
di trovarmi difronte ad un rarissimo esemplare scampato al
cataclisma dei consumi, oppure alla constatazione che nel mondo c'è
ancora una economia sommersa di bontà più estesa di quel che
pensi. Vibrava nelle sue espressioni la gioia di vivere. Ogni
frase grondava di allusioni a ineffabili letizie di povera gente:
l'attesa di sagre paesane straripanti d'incontri, l'incanto di
vigilie natalizie popolate di parentele, la fitta trama di
rapporti umani profumati di solidarietà. Parlando dei suoi
sacrifici, faceva spesso dell'auto ironia scoppiando a ridere, e
gli occhi gli brillavano, di commozione o di fierezza, quando
raccontava della premura giornaliera con cui sua moglie assisteva
una anziana vicina di casa. Ero letteralmente assorto nell'ascolto
di quel compagno di viaggio, che mi aiutava a scoprire, nei
sotterranei del mio essere, piccole gioie antiche che avevo
rimosso da tempo: sapori verginali di intimità casalinghe,
misteri di brividi nuziali che ti legano alle cose, freschezza di
abbandoni all'ala fragile dell'amicizia. Mi andavo chiedendo quale
fosse il segreto di quell'esistenza umanamente così armonica,
quando, all'improvviso, mi rivelò: "Io leggo ogni giorno il
Vangelo! Lo faccio sempre ogniqualvolta, durante la navigazione,
ho un momento di libertà". Non dovetti mostrare di prendere
sul serio la sua dichiarazione perché aggiunse: "Vedo che
non crede molto a ciò che le ho detto". E si alzò a
prendere una valigia che depose pesantemente sulla poltrona. La
spalancò ed in cima alla biancheria, fermato dalla cinghietta,
scorsi "Il santo Vangelo di nostro Signore Gesù
Cristo". Me lo porse e io, invece che alla prima, lo sfogliai
per caso all'ultima pagina, su cui, scritte in matita, lessi
queste annotazioni: "Finito di leggere la prima volta il 3
Ottobre 1980 presso lo stretto di Gibilterra… finito di leggere
la seconda volta nella baia di Sidney… finito di leggere la
quinta volta…". Chi sa per quale suggestione, mi vennero in
mente le parole della Gaudium et Spes: Le gioie degli uomini
d'oggi…dei poveri soprattutto, e di coloro che soffrono… sono
le gioie dei discepoli di Cristo. Il Vangelo mi rimase chiuso
su quell'ultima pagina. Ma dovetti richiuderlo subito: ero giunto
a Roma. Anzi, molto più in la di Roma. Ero giunto in quell'arcana
stazione dello spirito, dove il treno delle gioie dei poveri e il
treno delle gioie dei discepoli di Gesù facevano coincidenza. O
meglio coincidevano. Formando lo stesso convoglio verso l'unica
direzione del Regno.
P.S. la conferenza andò benissimo. Non mi ero mai preparato così!
(don
Tonino Bello, tratto da "Scrivo a voi… lettere di un
Vescovo ai catechisti ", pagg 82-84)
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VOLONTARIATO
Io
non credo che il volontariato vada inteso come produttore ed
erogatore di servizi soltanto.
Intanto
è generatore di coscienza critica, è fattore di cambiamento
della realtà, più che titolare di un assistenzialismo inerte.
L'interesse per la
marginalità deve giungere alla stroncatura serrata dei processi
di emarginazione: lo stile della denuncia non deve essergli
estraneo. D volontariato è chiamato a schierarsi. Non può
rimanere neutrale. Non deve essere pacificato. Pacifico, sì,
nonviolento. Deve saper cogliere il significato conflittuale
della povertà. Non gli è consentito di starsene buono in un
angolo mentre sa che in Italia ci sono 8 milioni e mezzo di poveri
e che, nel Meridione, un terzo della popolazione non si trova
garantita a nessun livello, né sociale, né economico, né
culturale, eccettuato il livello della pura sussistenza.
Non
gli è lecito mantenersi equidistante quando vede che il Sud
d'Italia è il luogo paradigmatico dove si manifestano gli stessi
meccanismi perversi che, certamente in modo più articolato,
attanagliano tutti i Sud della terra. Questa nuova visione
planetaria, che ci fa scorgere come i più poveri sono sempre più
numerosi mentre i ricchi diventano sempre più ricchi e sempre di
meno, deve spingere il volontariato a decidersi da che parte
stare: se vuole che la sua posizione sia demolitrice delle
strutture di peccato, o rimanga invece una semplice opera di
contenimento e di controllo sociale, di utile ammortizzatore,
tutto sommato funzionale al sistema che tali sperequazioni produce
e coltiva.
(Don
Tonino Bello, da “Chiesa di parte”)
Noi
ci impegniamo, noi e non gli altri
Una
poesia scritta da don Primo Mazzolari
che esprime bene l'atteggiamento di fondo di chi fa
volontariato
Ci
impegniamo noi, e non gli altri;
unicamente
noi e non gli altri;
né
chi sta in alto, né chi sta in basso;
né
chi crede, né chi non crede.
Ci
impegniamo,
senza
pretendere che gli altri si impegnino,
con
noi o per conto loro,
come
noi o in altro modo.
Ci
impegniamo
senza
giudicare chi non s’impegna,
senza
accusare chi non s’impegna,
senza
condannare chi non s’impegna
senza
disimpegnarci perché altri non s’impegnano.
Ci
impegniamo
perché
non potremmo non impegnarci.
C'è qualcuno
o qualche cosa in noi,
un istinto,
una ragione,
una vocazione,
una grazia,
più forte di
noi stessi.
Ci impegnamo
per trovare un senso alla vita
a questa vita,
una ragione
che non sia
una delle
tante ragioni,
che ben
conosciamo
e che non ci
prendono il cuore.
Si vive una
sola volta
e non vogliamo
essere "giocati"
in nome di
nessun piccolo
interesse.
Non ci
interessa la carriera,
non ci
interessa il denaro,
non ci
interessa
la donna o
l'uomo se presentati
come sesso
soltanto,
non ci
interessa il successo
nè di noi nè
delle nostre idee,
non ci
interessa passare alla storia.
Ci interessa
di perderci
per qualche
cosa o per qualcuno
che rimarrà
anche dopo che noi
saremo passati
e che
costituisce la ragione
del nostro
ritrovarci.
Ci impegnamo a
portare un destino
eterno nel
tempo,
a sentirci
responsabili
di tutto e di
tutti,
ad avviarci,
sia pure
attraverso un lungo errare,
verso l'amore.
Ci impegnamo
non per riordinare il mondo,
non per
rifarlo su misura,
ma per amarlo;
per amare
anche quello
che non
possiamo accettare,
anche quello
che non è amabile,
anche quello
che pare rifiutarsi all'amore,
poichè dietro
ogni volto e sotto ogni cuore c'è,
insieme a una
grande sete d'amore,
il volto e il
cuore dell'amore.
Il
mondo si muove se noi ci muoviamo,
si
muta se noi mutiamo,
si
fa nuovo se qualcuno si fa nuova creatura.
La
primavera incomincia con il primo fiore,
la
notte con la prima stella,
il
fiume con la prima goccia d’acqua
l’amore
col primo pegno.
Ci
impegniamo
perché
noi crediamo nell’amore,
la
sola certezza che non teme confronti,
la
sola che basta
a
impegnarci perpetuamente.
(Don
Primo Mazzolari)
|
CITTA'
NUOVA
Mi
sovviene l’espressione di un grande testimone del nostro tempo,
Giorgio La Pira, il quale diceva che noi credenti siamo oggi
chiamati a costruire una città nuova attorno alla fontana antica.
La
fontana antica è Lui, il Signore Gesù, il Principe della
pace. Dal suo capo fluente si diparte, in interminabili rigagnoli,
l'olio dello Spirito Santo verso i suoi consacrati mediante
l'Ordine Sacro. Da questi, verso tutto il popolo. E dal popolo,
verso gli estremi confini della terra.
La
città nuova dobbiamo essere noi, pietre viventi di questa
costruzione, investiti come non mai della missione planetaria di
annunciare la pace al nostro mondo frantumato, e farlo diventare
"cosmo", cioè bellezza.
Dobbiamo
essere noi questa "città nuova" posta sopra il monte,
la cui planimetria, degradando dalla fontana verso il mare, si
staglia tra due disegni stupendi del profeta Isaia.
Il
primo l'abbiamo ascoltato poco fa, e ci indica il "fuoco"
di partenza di questa città, con i suoi punti di fuga, con le sue
spinte architettoniche, col suo piano regolatore. D Signore ci
ha mandati «a portare il lieto annunzio ai poveri, a fasciare
le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli
schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l'anno di
misericordia del Signore».
Il
secondo disegno di Isaia ci indica l'orizzonte d'arrivo, o, se
vogliamo, il principio urbanistico ispiratore della nuova città
costruita attorno alla fontana antica: «Forgeranno le loro
spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà
più la spada contro un altro popolo, e non si eserciteranno più
nell'arte della guerra».
Ora,
se è vero che la pace è l'insieme dei beni messianici, e noi
oggi ci riconosciamo solennemente davanti all'altare come popolo
di "messìa", e quindi titolari e amministratori di
questi beni, dobbiamo fare della pace il nostro annuncio
fondamentale. Non l'accessorio delle nostre esuberanze
omi-letiche. Non la frangia marginale dei nostri discorsi. Non
l'appendice del nostro impegno cristiano.
La
pace non è tanto un problema morale, quanto un problema di
fede. Perché, più che il nostro agire, tocca il nostro essere di
persone "conformate a Cristo" in profondità.
Oggi
dobbiamo prendere coscienza che la pace non è il lago dei cigni
dove precipitano i ruscelli delle nostre sdolcinate
esercitazioni mistiche; o gli immissari dei nostri gesti romantici
fatti di abbracci, di canzoni e fiaccolate; o gli affluenti
delle nostre fantasiose simbologie con intrecci di colombe e
ramoscelli d'ulivo.
Quello
della pace è il discorso teologico più robusto e più serio che
oggi si possa fare, perché affonda le sue radici nel cuore del
mistero trinitario.
Se
infatti pace è, come oggi si dice, "convivialità delle
differenze", e se è vero che la Santissima Trinità è anche
essa "convivialità delle differenze", dobbiamo
concludere che "pace" è la definizione più vera del
mistero principale della nostra fede, in cui contempliamo tre
Persone uguali e distinte che siedono attorno al banchetto
dell'unica natura divina.
Di
qui, il nostro compito storico di saper stare insieme a tavola.
Non basta mangiare: pace vuoi dire mangiare con gli altri.
Di
qui, il nostro compito storico di far sedere all'unica tavola i
differenti commensali, senza pianificarli, senza uniformizzarli,
senza schedarli, senza omologarli. Noi, popolo messianico o
crismale, dobbiamo essere i ministri di questo convito.
(Don
Tonino Bello, da “Lessico di comunione”)
Verso la Gerusalemme del cielo
"Non
abbiamo qui una città stabile, ma cerchiamo quella futura" (Eb.
13,14). La città futura è la Gerusalemme nuova, descritta nei
capitoli finali dell'Apocalisse e vista come la dimora della pace.
C'è un inno bellissimo nella liturgia della Chiesa che comincia
così: "Coelestis urbs Jerusalem, beata pacis visio".
Città della Gerusalemme del cielo, tu sei uno stupendo spettacolo
di pace! Ecco la nostra ultima icona: quella utopica. La più
bella. Perché è l'icona della speranza. Di qui nasce tutta la
forza che sostiene la nostra fatica di viandanti. Di qui si muove
anche tutta la vergogna che ci deve fare arrossire ogni volta che
l'ambiguità del nostro "martirio" ci fa tentennare di
fronte alle "exousie" (onnipotenze) del mondo. Di qui
trae origine un coraggio che si rinnova, nonostante la povertà
delle realizzazioni, l'incompiutezza dei nostri disegni, e
l'amarezza di dover constatare che, in fatto di pace, il "già"
impallidisce sempre dinanzi al "non ancora". Ma non
dobbiamo aver paura. Un giorno godremo nella loro interezza di
tutte quelle realtà che qui sulla terra siamo chiamati a far
spuntare allo stato germinale e che ci sforziamo di far maturare
nei segni: la pace, la fraternità, la giustizia, la libertà. E'
dalla Gerusalemme del cielo (nella quale entreremo 1' "ottavo
giorno") che si deve scatenare l'empito entusiasta per ciò
che agli occhi umani sembra incredibile, assurdo, irraggiungibile:
la nonviolenza, il disarmo, l'unilateralità del disarmo, il
perdono, la rinuncia evangelica, la povertà, la gratuità, la
tenerezza... Ci accorgeremo finalmente che la pace non è
un'aspirazione, ma è una persona: Gesù Cristo, l'Emmanuele, il
Dio con noi. "Egli spezzerà l'arco detta guerra e annuncerà
la pace alle genti. Nei suoi giorni fiorirà la giustizia e
abbonderà la pace, finché non si spenga la luna. E dominerà da
mare a mare, dal fiume fino ai confini della terra." (Salmo
71). La presenza di Maria, "gloria di Gerusalemme", il
cui grembo materno, curvo come una vela, è segno del "già"
sospinto verso il "non ancora", vuole essere anche
l'icona del nostro pianeta gravido di speranza e proteso verso
"cieli nuovi e terra nuova".
(Don
Tonino Bello, Testo base del discorso pronunciato
al
Congresso nazionale di Pax Christi,
a
Rocca di Papa, 1,8 dicembre 1986)
|
IL
VOLTO FERIALE DELLA PACE
Carissimi,
dovremmo abituarci ad abbinare la Pace a parole più quotidiane.
Parliamo
quasi sempre di festa della Pace, marce della Pace, veglie della
Pace, tavole rotonde sulla Pace.
Ne
deriva l'immagine distorta che la Pace riesca ad andare d'accordo
solo con compagne fortunate. Che si mostri in pubblico solo con
coloro che hanno sfondato. Che accetti di apparire in vetrina solo
con realtà di rango superiore. O di passeggiare in tandem
unicamente con seguaci blasonate.
Forse
è arrivato il momento di capire che, oltre che di festa,
dovremmo poter parlare di ferialità
della pace.
Invece
che coniugarla sempre con le marce,
dovremmo appaiarla un po' più con i percorsi
quotidianiche, in linea ordinaria, sono scanditi su ritmi
scarsamente eroici.
Al
di là delle veglie, cariche di vibrazioni emotive e risonanti di salutari
utopie, dovremmo prendere atto che la Pace si costruisce anche
nei sonnolenti meandri
della storia e cresce anche nelle pieghe sotterranee
dell'esistenza. E non è blasfemo affermare che, al di là dei
velluti delle tavole rotonde, la Pace si costruisce sul ruvido tavolo
del falegname come sul desco
del contadino. Sulla cattedra
dell'insegnante còme sulla scrivania
dell'impiegato. Sullo scanno
dello scolaro come sulla mensola
della casalinga. Sull'impalcatura
del metalmeccanico come su ogni banco
impoetico dove si consumano le più oscure fatiche giornaliere.
Riappropriamoci,
come popolo di poveri, di una ricchezza che ci appartiene.
Democratizziamo la Pace. Spogliamola di ogni livrea aristocratica
che ce la fa sentire estranea e lontana. Pretendiamone la
discesa dai pinnacoli di tutte le case bianche del mondo fin
nelle catapecchie dei miserabili; e dalle torri di ogni cremlino
della terra fin nelle strade delle periferie, nel cui fango
germogliano larve di giustizia ancora in attesa di liberazione.
Fabbrichiamo
la «Pace fatta in casa», senza aspettarcela dalle «erogazioni
di Stato». Prendiamo coscienza che i cuori disposti al perdono e
alla comunione sono l'unica miniera da cui si estrae la materia
prima della Pace, senza la quale anche le più autorevoli
Cancellerie diplomatiche potranno offrirci solo ambigue sofisticazioni
e sterili surrogati.
Abbiniamo
con più coraggio la Pace a quelle espressioni che solo la paura
di apparire sognatori ci impedisce di adoperare:
amore
globale della vita, sapore di Vangelo, bisogno profondo di felicità,
tenerezza e stupore, amicizia e dialogo, poesia e umiltà, impegno
e speranza...
Sono
queste le armi della Pace, senza di che la Pace delle armi, nel migliore dei casi, sarà solo la Pace dei
cimiteri.
Un
caro saluto. Vostro
+ don TONINO, Vescovo
28
settembre 1986
CHI
VEDE IL FRATELLO VEDE IL PADRE
«Vi
mando a tutti gli uomini», dice il Vangelo. «Chi ascolta voi
ascolta me; a chi perdonerete sarà perdonato».
Qualcheduno
di noi ha creduto che qui la generosità del Padre attraverso le
parole del Cristo avesse toccato il colmo. No: non è il sacerdote
che rappresenta il momento culminante di questa partecipazione,
o di questa comunione del Padre. Siete voi, ognuno di voi.
Confrontate
quelle parole che vi ho dette con queste che incomincio a dirvi:
«Io avevo fame e tu non m'hai dato da mangiare; io avevo sete e
tu non m'hai dato da bere; io ero senza casa e tu non m'hai
ospitato;
io
ero ignudo e tu non m'hai vestito; io ero prigioniero e tu non sei
venuto a trovarmi».
Chi
vede il fratello vede il Padre: è una delle affermazioni che si
trovano tra le frasi non scritte nell'Evangelo ma raccolte nei
primi testi ecclesiali. Quando il Signore vuole che sia
preparata la pasqua nel cenacolo dice: «Vengo a far la pasqua coi
miei». Se uno rimane fuori, o miei cari fratelli, il Signore
rimane fuori.
Ci
sono le chiese piene, mi dicono. Vorrei domandarvi - non
abbiatevene a male -:
e
quelli che sono fuori, li abbiamo dentro, o miei cari fratelli,
nella nostra ospitalità cristiana? E facile credere in un Padre
che non ha figliuoli, se non noi... l'unico figlio!
Non
si può, o miei cari fratelli, entrare nella casa di tutti col
nome del Padre e lasciarne fuori uno.
Anche
la Comunione. Tocco la balaustra: è facile ricevere una
Presenza eucaristica dove il colloquio finisce per diventare il
piccolo dialogo del nostro egoismo, sia pure spirituale. E facile
guardare un'Ostia, anche con un occhio di fede. Ma che tremenda responsabilità
se, dopo aver aperto il nostro occhio su questa Presenza
eucaristica, noi non sappiamo discernere il volto del fratello. C'è
qualche cosa, o miei cari, che la paternità del Padre
stabilisce inequivocabilmente per me, per tutti.
(Don
Primo Mazzolari, “Il Padre Nostro” p. 91-92)
INCARNARE
Viene citata spesso.
Ma
viene ancora vissuta poco.
E'
una espressione che San Paolo usa scrivendo ai cristiani della
Galazia.
In
quella regione c'erano alcuni nostalgici i quali pretendevano
che tutti coloro che volessero farsi cristiani dovevano prima
diventare ebrei. In altri termini, chi desiderava ricevere il
battesimo era costretto a passare attraverso la lunga trafila
delle prescrizioni giudaiche, in testa alle quali figurava la circoncisione.
Era
un autentico capovolgimento del Vangelo, il quale, invece,
obbligava il credente a farsi ebreo con gli ebrei, greco con i
greci, schiavo con gli schiavi... per guadagnare tutti a Cristo.
Nello
stile del Vangelo, cioè, la conversione primordiale è quella di
chi annunzia la fede, non quella di chi la riceve. E' chi la
proclama che deve "Farsi prossimo", che deve smontare
da cavallo, che deve diventare "indigeno", che deve
entrare nella "carne" dell'altro.
Come
ha fatto il Signore, del resto, il quale col suo esempio ha
stabilito una legge inflessibile: non si compie nessuna salvezza,
se prima non ci si incarna.
Figurarsi
come doveva reagire San Paolo contro coloro che distorcevano a tal
punto questa legge da pretendere che fosse "l'altro" a
entrare nei panni dell'evangelizzatore e non l'evangelizzatore a
deporre il suo guardaroba!
Eccolo
allora sbottare in quelle frasi che indicano tutta l'indignazione
di chi non tollera che si possa usare, neppure a fin di bene, la
benché minima violenza mentale verso le persone.
Tra
queste frasi, proprio nella lettera ai Calati, giustamente
definita "il manifesto della libertà del cristiano e
dell'universalità della Chiesa", ce n'è una che riassume
il "credo" religioso di San Paolo sulla fondamentale
uguaglianza di tutti gli uomini tra loro, sulla dignità delle
loro appartenenze culturali, sulla loro vocazione all'unità in
Cristo Gesù: «Non c'è più giudeo né greco; non c'è più
schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti
voi siete uno in Cristo Gesù» (3,28).
Con
questa frase Paolo rovescia sulla terra le esigenze radicali del
mistero trinitario che si contempla nel cielo.
Ed
eccoci al punto.
Tutto
il discorso che si fa oggi nella Chiesa sull'accoglienza, sulla
prossimità, sulla convivialità delle differenze, sullo scambio
culturale deve partire da questo cardine trinitario!
Non
per nulla, insieme con la realtà dell'Incarnazione, quello della
Santissima Trinità è il mistero principale della nostra fede.
Beninteso:
della nostra fede e della nostra morale. D nostro spessore
etico, cioè, consiste nel tradurre con gesti feriali la
contemplazione festiva del mistero trinitario, scoprendo in tutti
gli esseri umani la dignità della persona, riconoscendo la loro
fondamentale uguaglianza, rispettando i tratti caratteristici
della loro distinzione.
(Don
Tonino Bello, da “Lessico di comunione”)
Il
cristiano è un "uomo di pace"
non
un "uomo in pace":
fare
la pace è la sua vocazione
Pare a molti che invece di
servirci della ragione per arrivare alla pace, la sospendiamo, per
timore che la pace faccia saltare il mondo dei nostri interessi.
Finora la pace ha trovato
sulla sua strada più moderatori che cultori, più paura che
fiducia: la paura di morire non di far morire.
Molti, invece di
considerarla un crimine, poiché facendo la guerra si uccide, la
tengono come una disgrazia, per il fatto che in guerra si puo'
essere uccisi.
Quando si parla di pace
bisogna parlarne come ne parlano i fanciulli, non pensando a
nient'altro, non negando con le mani o col cuore ciò che le
labbra dicono.
La pace è un bene pieno:
sulla pace non si ragiona né si distingue. E' una parola che non
sopporta aggiunte: una parola cristiana.
Da quando i cristiani si
sono messi a "ragionare sulla pace, a porre delle condizioni
"ragionevoli" alla pace, a mettere davanti a loro
"giustizie", non ci siamo capiti, neanche in cristianità,
ed è stata la guerra.
Tutto il mondo ha
"ragione" o crede di averla. La ragione va con tutti, e
finirà di stare col lupo, non con la pecora, la sola che avrebbe
veramente ragione, se non invidiasse il lupo e non cercasse di
superarlo.
La pace vuole un
linguaggio semplice, senza riguardi di persone, senza retorica,
senza crociate.
"Pace
a voi!"
"Sia
Pace a questa casa!"
"Vi
do la mia pace!"
Rimanete
nella mia pace!"
E
si mettevano sulla strada, a due a due, senza borsa, senza
bastone, senza niente.
La gente li scherniva,
quasi fossero dei pazzi; qualcuno pero' li fermava, mormorando: e
se avessero ragione?
Ma
dietro non avevano nessuno e niente.
Non erano attaccati a
nessuno, a niente: essi erano attaccati all'uomo, alla sua anima,
alle sue tribolazioni, poiché l'uomo era entrato nel loro cuore
assieme al Figlio dell'uomo, col nome di fratello.
Così
è cominciato il Vangelo di Pace
(Don Primo Mazzolari,da
“Tu non uccidere”)
|
INSIEME
Per
noi Chiesa, quell'insieme" non è solo una condizione
ineludibile per "camminare", ma esprime un modo sostanziale
per "essere". Se è vero che la Chiesa è "popolo
adunato nell'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito
Santo", come dice il Concilio; se è vero che
invochiamo lo Spirito perché tutti "diventiamo un solo
corpo e un solo spirito", come si esprime la liturgia
della messa; se è vero che la Chiesa è "propaggine della
comunità divina", come scriveva Romano Guardini; se è vero
che essa è "icona della Santa Trinità", come si
esprimono i teologi di oggi, nel senso che viene dalla Trinità,
è strutturata a immagine della Trinità, e va verso il compimento
trinitario della storia; se, dunque, la Trinità è la sorgente,
l'immagine esemplare e la meta ultima della Chiesa; se è vero
che la Trinità è il "già" e il "non
ancora" di essa; se è vero tutto questo... dobbiamo
concludere che, come nella SS. Trinità, anche nella Chiesa la
comunione di persone entra nel suo costitutivo essenziale.
Insieme, quindi, per "essere", e non solo per
"camminare".
Non vi sembrino inutili
appesantimenti dottrinali questi riferimenti teologici. Se non
comprendiamo che la Chiesa è "Oriens ex alto"
(che nasce dall'alto), che ha, cioè, nella Trinità l'origine,
il modello e la meta non solo della sua missione, come più
volte si esprime il recente documento "Comunione e
comunità missionaria", ma anche del suo stesso essere,
allora tutti i nostri richiami all'"insieme",
all'"unità", alla "comunione", sembreranno
solo manifestazione dell'ansia di chi vuoi contare di più,
incidere di più, produrre di più, apparire di più.
Nella sottolineatura
della "Ecclesìa de Trinitate" (Chiesa che nasce
dalla Trinità) non si nasconde il calcolo del proverbio che
dice "l'unione fa la forza". C'è, invece, la esigenza
di far capire che, se l'albero è la Trinità, mistero di
comunione, la Chiesa, che su quest'albero matura, non può vivere
la disgregazione delle persone, il molecolarismo dei progetti,
la frantumazione degli sforzi. Se no, non è Chiesa. Sarà organizzazione
del sacro, consorteria di beneficenza, fabbriceria del rito,
multinazionale della morale. Ma non Chiesa.
Dai frutti li
conoscerete, ha detto Gesù. Se dai frutti non ci è dato risalire
al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo, vuoi dire che non ci
troviamo di fronte alla Chiesa.
Se ho un tantino
indugiato su questi richiami dottrinali è perché sento che è
venuta l'ora di dare una seria fondazione teologica al nostro
bisogno di comunione. Comunione, che, lo ripeto, non nasce dalla
necessità di stringere le fila o dall'urgenza di serrare i
ranghi per meglio far fronte al mondo che ci incalza. La comunione
nasce da una ineluttabilità ontologica, non da un calcolo
aziendale.
Sicché, nelle
espressioni che spesso scegliamo come titolo dei nostri
convegni: "Insieme per camminare, insieme per spezzare il
pane, insieme per pregare, insieme per lottare...", nessuno
sposti l'attenzione sul verbo dicendo: "Purché si cammini,
purché si spezzi il pane, purché si preghi, purché si
lotti...". La forza della frase poggia sull'avverbio
"insieme".
Don
Tonino Bello, da “Lessico di comunione”
In principio, la Trinità
Una
delle cose più belle e più pratiche messe in luce dalla teologia
in questi ultimi anni è che la SS. Trinità non è solo il
mistero principale della nostra fede, ma è anche il principio
architettonico supremo della nostra morale. Quella trinitaria, cioè,
non è solo una dottrina da contemplare, ma un'etica da vivere.
Non solo urta verità tesa ad alimentare il bisogno di
trascendenza, ma una fonte normativa cui attingere per le nostre
scelte quotidiane. Gesù, pertanto, ci ha rivelato questo segreto
di casa sua non certo per accontentare le nostre curiosità
intellettuali, quanto per coinvolgerci nella stessa logica di
comunione che lega le tre persone divine.
Nel
cielo tre persone uguali e distinte vivono così profondamente la
comunione, che formano un solo Dio. Sulla terra più persone,
uguali per dignità e distinte per estrazione, sono chiamate a
vivere così intensamente la solidarietà, da formare un solo
uomo, l'uomo nuovo: Cristo Gesù. Sicché l'essenza della nostra
vita etica consiste nel tradurre con gesti feriali la
contemplazione festiva del mistero trinitario, scoprendo in tutti
gli essere umani la dignità della persona, riconoscendo la loro
fondamentale uguaglianza, rispettando i tratti caratteristici
della loro distinzione. C'è da aggiungere, poi, che nel cielo le
ricchezze proprie di una persona divina sono così trasferibili
dall'una all'altra (c'è, potremmo dire, un così intenso scambio
culturale tra Padre, Figlio e Spirito), che la teologia per
indicare questo fenomeno ha dovuto coniare un'espressione forse un
po' difficile per i non addetti ai lavori, ma estremamente
significativa: la comunicazione degli idiomi. Ebbene, l'imperativo
etico che ne deriva per coloro che vivono sulla terra è che se
tengono sotto sequestro le proprie risorse spirituali o materiali
senza metterle a disposizione degli altri, non possono esimersi
dall'accusa di appropriazione indebita.
Convivialità
delle differenze
Possiamo
concludere, allora, che il genere umano è chiamato a vivere sulla
terra ciò che le tre persone divine vivono nel cielo: la
convivialità delle differenze. Che significa? Nel cielo, più
persone mettono così tutto in comunione sul tavolo della stessa
divinità, che a loro rimane intrasferibile solo l'identikit
personale di ciascuna, che è rispettivamente l'essere Padre,
l'essere Figlio, l'essere Spirito Santo. Sulla terra, gli uomini
sono chiamati a vivere secondo questo archetipo trinitario: a
mettere, cioè, tutto in comunione sul tavolo della stessa umanità,
trattenendo per sé solo ciò che fa parte del proprio identikit
personale. Questa, in ultima analisi, è la pace: la convivialità
delle differenze. Definizione più bella non possiamo dare. Perché
siamo andati a cercarla proprio nel cuore della SS. Trinità. Le
stesse parole che servono a definire il mistero principale della
nostra fede, ci servono a definire l'anelito supremo del nostro
impegno umano. Pace non è la semplice distruzione delle armi. Ma
non è neppure l'equa distribuzione dei pani a tutti i commensali
della terra. Pace è mangiare il proprio pane a tavola insieme con
i fratelli. Convivialità delle differenze, appunto.
La
Trinità, tavola promessa
Ma
c'è di più: la vita trinitaria del cielo non è solo un modulo
da rovesciare sulla terra perché gli uomini ne vivano le esigenze
radicali con uno sforzo di imitazione fine a se stessa. La Trinità,
cioè, non è solo un archetipo da riprodurre, ma è una tavola
promessa alla quale un giorno avremo la sorte dì sederci,
all'unica condizione che anche sulla terra ci si alleni a stare
insieme con gli altri attorno alla stessa mensa della vita. Dopo
che sulla terra ci saremo impegnati a essere una sola cosa nel
Cristo, divenuti "Figli nel Figlio", prenderemo posto
"per ipsum, cum ipso et in ipso" al tavolo della
Santissima Trinità. Come è dato vedere, il Signore Gesù se ci
ha rivelato questo mistero, non l'ha fatto certo per complicarci
le idee. Ma l'ha fatto per offrirci un principio permanente di
critica cui sottoporre tutta la nostra vita nelle sue espressioni
perso-nali e comunitarie, e per indicarci, nel contempo, il porto
al quale attraccheremo finalmente la nostra barca. Sicché la
Trinità non è una specie di teorema celeste buono per le
esercitazioni accademiche dei teologi. Ma è la sorgente da cui
devono scaturire l'etica del contadino e il codice deontologico
del medico, i doveri dei singoli e gli obblighi delle istituzioni,
le leggi del mercato e le linee ispiratrici dell'economia, le
ragioni che fondano l'impegno per la pace e gli orientamenti di
fondo del diritto internazionale. La Trinità, dunque, è una
storia che ci riguarda. Ed è a partire da essa che va pensata
tutta l'esistenza cristiana. Bloch diceva che Dio è un padrone
collocato così in alto, che l'uomo, il servo, di fronte a lui
rimane a bocca asciutta. Nulla di più falso, almeno per il nostro
Signore, il quale, se si è rivelato uno e trino, è perché vuol
far sedere il servo alla tavola delle sue ricchezze.
(Tratto
da: "La famiglia come laboratorio di pace", Prato 10
settembre 1988)
|
Interesse:
OCCHI
NUOVI
Nella
preghiera eucaristica ricorre una frase che sembra mettere in
crisi certi moduli di linguaggio entrati ormai nell'uso corrente,
come ad esempio l'espressione “nuove povertà”.
La
frase è questa: "Signore, donaci occhi per vedere le
necessità e le sofferenze dei fratelli...”.
Essa
ci suggerisce tre cose.
Anzitutto
che, a fare problema, più che le “nuove povertà”, sono gli
“occhi nuovi” che ci mancano. Molte povertà sono
“provocate” proprio da questa carestia di occhi nuovi che
sappiano vedere. Gli occhi che abbiamo sono troppo antichi. Fuori
uso. Sofferenti di cataratte. Appesantiti dalle diottrie. Resi
strabici dall'egoismo. Fatti miopi dal tornaconto. Si sono ormai
abituati a scorrere indifferenti sui problemi della gente. Sono
avvezzi a catturare più che a donare. Sono troppo lusingati da ciò
che “rende” in termini di produttività. Sono così vittime di
quel male oscuro dell'accaparramento, che selezionano ogni cosa
sulla base dell'interesse personale. A stringere, ci accorgiamo
che la colpa di tante nuove povertà sono questi occhi vecchi che
ci portiamo addosso. Di qui, la necessità di implorare “occhi
nuovi”. Se il Signore ci favorirà questo trapianto, il
malinconico elenco delle povertà si decurterà all'improvviso, e
ci accorgeremo che, a rimanere in lista d'attesa, saranno quasi
solo le povertà di sempre.
Ed
ecco la seconda cosa che ci viene suggerita dalla preghiera della
Messa.
Oltre
alle miserie nuove “provocate” dagli occhi antichi, ce ne sono
delle altre che dagli occhi sono “tollerate”. Miserie, cioè,
che è arduo sconfiggere alla radice, ma che sono egualmente
imputabili al nostro egoismo, se non ci si adopera perché vengano
almeno tamponate lungo il loro percorso degenerativo. Sono nuove
anch'esse, nel senso che oggi i mezzi di comunicazione ce le
sbattono in prima pagina con una immediatezza crudele che prima
non si sospettava neppure. Basterà pensare alle vittime dei
cataclismi della storia e della geografia. Ai popoli che abitano
in zone colpite sistematicamente dalla siccità. Agli scampati da
quelle bibliche maledizioni della terra che ogni tanto si rivolta
contro l'uomo. Alle turbe dei bambini denutriti. Ai cortei di
gente mutilata per mancanza di medicine e di assistenza. Anche per
queste povertà ci vogliono occhi nuovi. Che non spingano, cioè,
la mano a voltar pagina o a cambiare canale, quando lo spettacolo
inquietante di certe situazioni viene a rovinare il sonno o a
disturbare la digestione.
E
infine ci sono le nuove povertà che dai nostri occhi, pur lucidi
di pianto, per pigrizia o per paura vengono “rimosse”. Ci
provocano a nobili sentimenti di commossa solidarietà, ma nella
allucinante ed iniqua matrice che le partorisce non sappiamo
ancora penetrare. La preghiera della Messa sembra pertanto voler
implorare: “Donaci, Signore, occhi nuovi per vedere le cause
ultime delle sofferenze di tanti nostri fratelli, perché possiamo
esser capaci di “aggredirle”. Si tratta di quelle nuove povertà
che sono frutto di combinazioni incrociate tra le leggi perverse
del mercato, gli impianti idolatrici di certe rivoluzioni
tecnologiche, e l'olocausto dei valori ambientali, sull'altare
sacrilego della produzione. Ecco allora la folla dei nuovi poveri,
dagli accenti casalinghi e planetari.
Sono,
da una parte, i terzomondiali estromessi dalla loro terra. I
popoli della fame uccisi dai detentori dell'opulenza. Le tribù
decimate dai calcoli economici delle superpotenze. Le genti
angariate dal debito estero. Ma sono anche i fratelli destinati a
rimanere per sempre privi dell'essenziale: la salute, la casa, il
lavoro, la partecipazione. Sono i pensionati con redditi
bassissimi. Sono i lavoratori che, pur ammazzandosi di fatica,
sono condannati a vivere sott'acqua e a non emergere mai a livelli
di dignità. Di fronte a questa gente non basta più commuoversi.
Non basta medicare le ustioni a chi ha gli abiti in fiamme. I soli
sentimenti assistenziali potrebbero perfino ritardare la soluzione
del problema. Occorre chiedere “occhi nuovi”.
“Donaci
occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli. Occhi
nuovi, Signore. Non cataloghi esaustivi di miserie, per così
dire, alla moda. Perché, fino a quando aggiorneremo i prontuari
allestiti dalle nostre superficiali esuberanze elemosiniere e non
aggiorneremo gli occhi, si troveranno sempre pretestuosi motivi
per dare assoluzioni sommarie alla nostra imperdonabile inerzia.
Donaci
occhi nuovi, Signore”.
(don
Tonino Bello)
PIETRE
DI SCARTO
Carissimi
sono un po' triste perché so che questa lettera forse non la
leggerete. Quelli che non contano niente, di solito, giornali non
ne comprano. Prima di tutto perché non hanno soldi da sprecare. E
poi perché i giornali sono diventati difficili. Anche quelli di
Chiesa. Si rivolgono quasi sempre a persone istruite. E trattano
argomenti che non hanno nulla a che fare con i problemi che voi
vivete, con le difficoltà in cui vi dibattete, con l'indifferenza
che vi circonda. Voi non fate storia. Qualche volta fate cronaca:
quasi sempre cronaca nera. Eppure, chi conosce la trama dei vostri
giorni sfilacciati sa che avreste da raccontare tanta cronaca
bianca, da far trasalire la città. Ma la cronaca bianca non fa
notizia. Voi non fate storie.Perché non sapete parlare. E, anche
quando vi sentite bruciare dentro le ingiustizie della terra, le
parole vi muoiono in bocca. Anzi, vi capita spesso di pensare che,
forse, ad av3er torto siete voi. Voi non fate peso. Eppure siete
turba. Quelli che contano si ricordano di voi all'occasione del
voto. Ma dopo quel momento, siete solo di peso. Voi appartenete al
mondo sommerso della città. Quello che non cambia mai. Perché, i
mutamenti riguardano quasi sempre la superficie. Come succede sul
mare: oggi é scirocco e le onde vanno di qua, domani é
tramontana e le onde sbattono di là. I fondali, però, rimangono
inalterati. La politica vi passa sulla testa.Ogni tanto, di sopra,
cambia lo "scenario", come dicono oggi. Ma voi rimanete
sempre sotto la botola. Al massimo, bene che vi vada, raggiungete
il livello di calpestio. Anche la religione vi passa sulla testa.
É vero che qualche volta vi afferra il cuore, fino a farvi
lacrimare. Ma più per quei crepacci di mistero che si aprono sul
pavimento, che per quelle fessure di luce che si squarciano sul
tetto. Di solito, voi rimanete estranei all'eloquenza del rito. Vi
sfugge la profondità dei segni. Non capite il senso di certe
parole. Ebbene, con la stessa sofferenza ma anche con la stessa
speranza di Gesù che ebbe compassione delle folle, desidero
rivolgermi proprio a voi. A voi che non contate nulla agli occhi
degli uomini, ma che davanti agli occhi di Dio siete grandi.
Appunto, questa é la cosa più urgente che voglio dirvi: davanti
agli occhi di Dio voi siete grandi. Per lui, infatti, meriti
personali a parte, Giovanni Paolo II é importante come Antonio,
che fa il subacqueo di frodo per campare la sua famiglia.
Gorbaciov vale quanto Pantaleo che, come un ebete, se ne va in
giro tutto il giorno col cane. E Nelson Mandela, liberato nella
gloria, ha le stesse quotazioni di Said, negro anche lui, ma che,
braccato dal disinteresse generale, é rimasto prigioniero nelle
sacche della miseria della nostra città. Coraggio! Dio non fa
graduatorie. Non sempre si lascia incantare da chi sa parlare
meglio. Non sempre si fa sedurre dal profumo dell'incenso, più di
quanto non si accorga del tanfo che sale dai sotterranei della
storia. Desidero rivolgermi a voi, perché sono convinto che il
rinnovamento spirituale può partire solo da coloro che non
contano niente. Riappropriatevi della città. Non sopportatela, ma
vivetela. Vedrete: le cose cambieranno. Diversamente, non basterà
il ristrutturarsi delle istituzioni democratiche. Non saranno
sufficienti i buoni propositi dei partiti. Non approderà a nulla
l'infittirsi delle cosiddette scuole di politica. Saranno inutili
i più raffinati programmi pastorali. E non invertiranno la corsa
del mondo neppure i proclami dei vescovi. L'avvenire ha i piedi
scalzi, diceva uno scrittore francese. E voleva intendere che il
futuro lo costruiscono i poveri. Sì, il processo di conversione a
cui ci chiama costantemente il Vangelo deve cominciare da voi. Se
voi riuscirete a liberarvi dalla rassegnazione, se riporrete
maggiore fiducia nella solidarietà, se la romperete con lo stile
pernicioso della delega, se non vi venderete la dignità per un
piatto di lenticchie, se sarete così tenaci da esercitare un
controllo costante su coloro che vi amministrano, se provocherete
i credenti in Cristo a passare armi e bagagli dalla vostra parte,
non tarderemo a vedere i segni gaudiosi della risurrezione. E
anche per la Chiesa verranno tempi nuovi. E dal domicilio dei
poveri, si sprigionerà un così forte potenziale evangelizzatore,
che la città traboccherà di speranza.
Vostro
don Tonino
(da
Tonino Bello "Pietre di scarto", La Meridiana - Luce
& Vita, 1993)
|
I
LONTANI
Il
titolo mi piace. Sa di nostalgia: di ponti, mantenuti
almeno da una parte: di desideri taciuti: d’incontri o di
ritorni auspicati, cercati, preparati nella preghiera nella carità
del cuore e dell’intelligenza. Sa di esilio. E poiché siamo un
po’ tutti esuli, poiché ogni giorno ognuno è in tentazione di
perdere o di far perdere la Casa del tempo, introduzione a quella
dell’eternità: per tale accorato timore, per tale fraterna
sollecitudine, siamo vicini ai lontani, così vicini che essi
sono un po’ noi, sono noi. Ci si salva salvando: si
rimane nella chiesa se si ha il coraggio di uscirne per ricondurvi
il prodigo; si è pastori a patto di ascoltare il lamento della
pecora perduta e di lasciare le sicure per cercare, ritrovare,
riportare, sulle spalle e sul cuore, proprio la perduta.
Il
problema dei lontani
Noto
con piacere che ovunque si risveglia il problema dei lontani: che
la sollecitudine di essi cresce dove è già desta, con tentativi
di ricerca sulle maniere più convenienti per accostarli,
interessarli, intrattenerli, ritrovarli. Non è giusto dire son
pochi coloro che guardano oltre la staccionata – se si continua
l’immagine evangelica - oltre gli spalti – se si pensa la
chiesa come una città munita -. Mi sembra più giusto dire: è un
po’ poco il far lamento, un po’ poco il deprecare: un po’
poco perfino la preghiera, se essa non è l’introduzione a
quell’attività illuminata, che, aiutata dalla grazia, può
colmare le distanze create, a volte, da un reciproco allontanarsi.
Accade, purtroppo assai di frequente, che uno vada tanto lontano
perché qualcun altro s’è spostato in senso opposto. Allora
sembra anche più difficile attraversare questa terra
di nessuno, la quale invece, è la terra più nostra, santificata dalle lacrime più ineffabili.
Chi
è “lontano”
“Lontano”
non è soltanto colui che, andandosene, ha sbatacchiato l’uscio
di casa, e non s’è neppure voltato indietro, rotto i ponti e
negato recisamente, audacemente. Di costoro ce n’erano di più
qualche anno fa, anche nei paesi. L’aria favoriva le rotture
brusche, drammatiche. Il “transfuga” s’accampava di fronte
alla chiesa e le moveva guerra. La “città dell’uomo” contro
la “città di Dio”. La “lontananza” a quei tempi una
regione ben definita, “un paese”. Adesso quasi non esiste più
nello spazio; è l’assenza di Qualcuno,
uno stato d’animo. Uno stato d’animo non è definibile né
numerabile. Da una varietà senza numero d’impressioni e
sentimenti, ne vien fuori, non sempre logicamente avvertita ma
spiritualmente sofferta, questa conclusione: non sono più sicuro
della mia fede. Oggi, la crisi religiosa ha perduto le sue forme
classiche. Una volta, il travaglio interiore, pro o contro, si
risolveva in tempo relativamente breve. Di rado si faceva cronico.
Adesso è il permanere di uno stato d’incertezza e
d’indifferenza, la quale è come un senso di qualche cosa di
superato. Vano quindi il crucciarsi, sia per ritrovare come per
combattere.
L’irreligiosità
contemporanea è di tipo affatto diverso da quella che
caratterizza la fine dell’ottocento e il primo decennio del
nostro secolo. Quella, era una negazione recisa, ragionata,
battagliera. Scegliere era un dovere comandato dall’intelligenza
e dalla coscienza. Il dilemma oggi non esiste. C’è invece la
scettica inconsistenza di chi sente di non aver più la fede di
ieri, che sa di non avere ancora trovato, che dubita di trovare.
Donde un certo rispetto per il passato che ha una scia di bontà,
d’arte, di poesia. I “senza Dio” sono i continuatori di
ieri. Ma quello – a mio avviso – nonostante l’organizzazione
e la virulenza dei mezzi, è un movimento senza domani. L’animo
dei nostri contemporanei ha una diversa inclinazione. Su di essa
conviene porre l’occhio, la mente, il cuore.
Non
cataloghiamo i lontani
C’è
la tendenza di catalogare anche le crisi religiose e di fissarne
il tipo, a seconda del prevalere di questo o di quell’elemento.
Si hanno così degli allontanamenti, ove l’elemento affettivo o
morale sovrabbonda: altri, ove appare dominante il raziocinio: in
altri i motivi colturali, scientifici o sociali. Talora è
l’esempio di qualche personalità, il clima storico. In
qualcuno, l’allontanarsi è un fatto di piena e sofferta
consapevolezza: per molti, di passività e di stanchezza. Ogni
epoca poi, dà un colore suo proprio alla crisi religiosa, la
quale, pur rimanendo individuale, assume delle caratteristiche
generali, che incorniciano il singolo dramma e gli danno uno
sfondo comune. Molti studiosi si fermano a quest’ultimo, come
bersaglio, meno imbarazzante e di più facile rilievo; poiché il
generalizzare è un comodo mezzo per scordare la patetica
suggestione che dà una sofferenza spirituale se guardata fuori
dall’astratto. Le dissertazioni sui mali di un’epoca non
fecero progredire la medicina, mentre le esperienze personali, pur
impedendo al momento di far scienza, aiutarono assai la cura e la
redenzione degli spiriti malati.
Dell’animo
di colui che va lontano
Un
conto son le cause della lontananza, un conto l’animo di colui
che va lontano. Le cause vi son legate, ma non fanno l’animo,
cioè quella particolare disposizione interiore che è il vero
movente. Uno si muove dal di dentro, sia che torni, sia che si
allontani. Io credo che ben pochi sanno d’andar lontano. Come
c’è un’anima di verità in ogni essere, così c’è
un’anima di buona fede in ogni errante. Ci si sbaglia o nei
riguardi dell’oggetto o nei modi di raggiungerlo: ma
l’intenzione può anche essere retta. Ognuno crede di avere
meglio e di più. Nessuno si avvia fuori di casa con la certezza
di fare una perdita. “Mercator
pessimus” , come Giuda,
ma con l’illusione e il desiderio di fare un guadagno. Il
peccato originale, come insegna la chiesa, non ci guasta del
tutto: c’è un punto immacolato in ognuno, anche se difeso
dall’ignoranza. – Padre perdona loro perché non sanno … Se
uno fa, sapendo proprio quello che si fa, pecca contro la luce. Ma
i più sono degli erranti, cioè gente che va fuori strada
credendo di non sbagliare. – Ma l’abbiamo avvertito, fatto
ragionare … - Sta bene. Ma proprio quello che per noi è motivo
di persuasione, in lui non ha presa. Forse le mie stesse ragioni
gli creano maggiori dubbi. Quale mistero!
Duplice
lavoro: duplice metodo
Come
vi sono due compiti distinti nel nostro apostolato moderno, così
vi sono due metodi distinti: il metodo di perseveranza e quello di
penetrazione o di ricristianizzazione. Il primo si compie
nell’ambito della vita parrocchiale e si serve, nella sua
molteplice attività, dei sussidi ormai tradizionali: uffici
divini, pratica sacramentale, catechismi, ritiri, predicazione,
oratori, congregazioni, pie associazioni, collegi, scuole,
librerie, stampa cattolica, buon teatro, buon cinema, ecc. E’ un
apostolato eminentemente conservatore, non però abbandonato alla routine,
poiché anche per conservare bisogna adattarsi di continuo alla
vita, che muta vertiginosamente e crea condizioni nuove agli
stessi credenti. Il metodo di penetrazione o di riconquista deve
avere qualche cosa di diverso: una sua anima, più slanciata, e
un’andatura più indipendente , più agile, più audace. Sarebbe
un errore il credere che il metodo di conservazione possa, con
lievi ritocchi, supplire il metodo di riconquista. La prova è
nell’insuccesso continuo dei nostri sforzi. Vi sono anime e
ambienti che le nostre tradizionali di attività cattolica non
scalfiscono neppure. La maggior parte dei nostri giornali,
riviste, libri, predicazioni non arrivano fuori della clientela
specificatamente cattolica, né riescono influenzare il movimento
generale delle idee, né
interessano il pubblico lontano. Il mondo – non importa se
cammina male – ha imparato a camminare senza di noi e, quel che
è peggio, ci ha tagliato o ci sta tagliando fuori dalla sua
orbita e quasi accantonando., secondo l’acerba e veristica frase
di Peter Wust, in un “ghetto cattolico”. Quasi nessuno
s’accorge di noi come cristiani. Pochi sanno che al mondo c’è
una maniera cristiana di guardare la vita, l’uomo, il lavoro, il
denaro, le patrie. Parecchi dei nostri, o finiscono per accettare
i metodi se non gli schemi ideali degli altri, oppure si
esauriscono nel riprovare e condannare. “L’avventura del mondo
diventa tragica perché mancano anime cristianamente avventurose.
All’avanguardia non ci sono più i segni del Cristo: almeno non
si scorgono. Pare che sia stato sciolto il corpo dei pionieri,
mentre una santa arditezza, dovrebbe formare lo sfondo
dell’apostolato moderno”. C’è una terra di missione, che
incomincia appena fuori delle nostre chiese, divenute talvolta
brevi isole sperdute nella piena inondante di una civiltà non più
segnata in fronte dal nome di Cristo. La nuova cristianità non
potrà sorgere senza la perdita di qualche posizione tranquilla o
creduta tale. Lo stesso sforzo di difesa è destinato
all’insuccesso se non è sorretto dallo sforzo di penetrazione.
L’incredulità scavalca ogni riparo e ci porterà via coloro
stessi che non avremo lanciato alla conquista del mondo moderno.
Ci si difende assalendo. La missione, più che il segno della
vita, è la vita stessa della religione: e l’ite
della messa fa eco all’”andate e predicate a tutti” del
Cristo.
“La victoire n’appartiendra qu’a un commandement avide d’avventures
audaces et de responsabilités” (Foch).
Mi
permetto di aggiungere che, così intesa, la fedeltà alla verità
è già una devozione a qualcuno, dato che il ritorno è sempre un
innamoramento. Tanto più che il ritorno non è segnato da un
traguardo unico. La parabola dei talenti porta dei guadagni
quantitativamente diversi ma egualmente lodevoli e rimunerativi.
Non ritorna soltanto colui che entra in casa e vi si asside alla
maniera dei figlioli che non ne sono mai usciti. Mi pare si possa
credere all’inesauribile maniera di convertirsi. V’è chi
entra come s. Paolo e s. Agostino: v’è chi rimane sulla soglia
come Péguy e Rivière, gente du parvis …, prospiciens a longe, come dice l’inarrivabile motivo dell’avvento.
Anche
il profugo, che non osa o non può varcare la soglia di casa, ma
che vi sospira col cuore lungo i sentieri dell’esilio, è uno
che torna. Chi, per una sola volta, ha raccolto sul cuore del
fratello lontano l’intraducibile pianto dello sforzo che non
riesce a sopprimere le distanze, e che cammina senza giungere la
dove è, segnato dall’uomo, il punto dell’incontro festoso,
quegli sa che Qualcuno ha camminato davanti, consacrando sul cuore
crocifisso l’alleluia del Regno dei Cieli.
(Don
Primo Mazzolari)
LONTANI
Nel
desiderio di far arrivare la parola di Dio, le nostre Chiese
devono studiarsi di raggiungere coloro che attualmente risiedono
“fuori le mura”.
I
lontani per comportamenti devianti.
Gesù
Cristo raggiungeva i peccatori, le prostitute, i ladri, la gente
malfamata. C'è da chiedersi se noi seguiamo, in quest'ansia, le
orme del Maestro.
I
lontani per scelte teoriche, per convincimenti interiori o per
motivi ideologici.
C'è
tutto un mondo culturale che ormai si rapporta a Cristo e alla
sua Chiesa in termini di indifferenza, di superficialità e di
distacco, se non proprio di lotta. A noi incombe il dovere di
offrire a questa gente continue possibilità di ripensamento, di
verifica, di rispettoso confronto, fa modo tale che si pongano
almeno le basi di quella "pre-evangelizzazione" che
facilita a Cristo, con risultati migliori di quelli ottenuti da
San Paolo, l'ingresso nell'areopago della cultura.
E
allora occorre chiedersi:
La
nostra è una Chiesa ancora troppo ripiegata su se stessa o si
curva con più slancio sul mondo, accettando da lui l'ordine del
giorno per il suo impegno e per le sue discussioni?
Lo
slogan "parrocchia missionaria nel quartiere", da tempo
in giro nel nostro frasario pastorale, è rimasto solo un
"spot" pubblicitario o sta provocando rovesciamenti di
mentalità? La parrocchia, cioè, è una Chiesa "vicino
alle case" o rischia di rimanere solo "ubicata" tra
le abitazioni, senza la capacità di assumerne i bisogni, le
ansie, le speranze, le sofferenze, i problemi?
(Don Tonino Bello, da “Stola e
grembiule”)
(...)
Diciamocelo con franchezza: noi, qui, tutto sommato, siamo degli
aristocratici. Anche se così numerosi, costituiamo pur sempre
una "élite": vescovo, presbiteri, diaconi, ministri,
religiose, catechisti, cresimandi... gente comunque impegnata
ecclesialmente, che adopera con disinvoltura il vocabolario
biblico, che sperimenta la gioia e il privilegio di comunicare
con fratelli di fede, che si nutre della Parola e trova il
conforto dei segni sacramentali.
Ma
la maggior parte del popolo di Dio sta fuori della tenda.
I
più non sanno neppure che stiamo celebrando questa liturgia
crismale. Molti non sospettano neanche lontanamente che questo
luogo sta per diventare il cratere da cui si dipartono, come una
colata lavica compressa in piccoli vasi, i rigagnoli dell'olio
che simbolizzano la pace, la forza, la santità dello Spirito.
Che
ne sanno dell'olio misto a balsamo i pescivendoli della nostra
città di Molfetta o le studentesse che in queste prime ore delle
vacanze pasquali affollano il corso?
Che
se ne importano dell'olio dei catecumeni i fiorai di Terlizzi
impegnati a concludere lucrosi Gommerei primaverili?
Che
volete che si interessino delle nostre misture aroma-tiche i
coltivatori diretti o gli impiegati delle cantine sociali di Ruvo?
Quale
attenzione possono nutrire per l'olio degli infermi gli artigiani
di Giovinazzo o i cassintegrati delle acciaierie?
Eppure,
con quest'olio consacrato hanno avuto tutti a che fare, se non
altro perché battezzati. Ma le loro scorte si sono presto
esaurite.
Allora
è anche per essi che noi oggi stiamo qui.
E
guai se, mentre come i Nazaretani nella sinagoga teniamo gli
occhi fissi su Gesù, almeno un orecchio non lo porgessimo
all'implorazione di coloro che ci chiedono dell'olio perché le
loro lampade si spengono.
Vi
ho detto queste cose per invitarvi a cogliere il frutto più
carnoso della Messa Crismale, che è quello di sentirci
profondamente solidali con tutto il popolo, del quale, in gradazioni
varie, siamo ministri e al quale, una volta fatto il pieno
dell'Olio dello Spirito, siamo inviati come missionari.
Dobbiamo
realizzare, insomma, in ciascuno di noi quello che le letture
bibliche attribuiscono al Messia: ci ha mandato per annunciare ai
poveri un lieto messaggio.
Senza
questa solidarietà col mondo, che si fa poi simpatia per gli
ultimi, compassione con i sofferenti, schieramento con gli
oppressi, attenzione ai problemi planetari, compagnie con i
lontani, preghiera per tutti, questo rito che stiamo celebrando si
ridurrebbe a una specie di “cocktail-party” per pochi intimi,
del quale io sarei l’anfitrione misterioso.
(Don Tonino Bello, da “Lessico di comunione”)
|
Noi
siamo Chiesa scelta e amata da Dio, il quale, per giunta, non
misura il suo amore sulla base del nostro rendimento in
generosità.
Egli
continua a investire su di noi a fondo perduto.
Sicché
noi siamo la sua piccola, povera, dolcissima Chiesa, con gli
abiti lisi senz'altro, forse col volto macchiato e con le membra
un po' rotte, ma dagli occhi vivaci che hanno ferito il suo cuore.
(Don
Tonino Bello, da “Frammenti”)
Basilica Maggiore
a
Povero
Giuseppe! Viveva allo sbando, come un cane randagio. Aveva 36 anni
e metà dell’esistenza l’aveva consumata nel carcere. La mala
sorte un po’ se l’era voluta da solo, per quella dissennata
anarchia che gli covava nell’anima e lo rendeva irriducibile ai
nostri canoni di persone perbene. Ma una buona porzione di
sventura gliela procuravano a rate tutti quanti. A partire da me
che, avendolo accolto in casa, gli facevo pagare l’ospitalità
con le mie prediche... per finire ai giovanotti del bar vicino
alla stazione che gli pagavano la bottiglia di whisky per godersi
lo spettacolo di vederlo ubriaco... Quell’anno, alla fine di
aprile, il Santuario di Molfetta, dedicato alla Madonna dei
Martiri, con speciale bolla pontificia veniva solennemente elevato
alla dignità di Basilica Minore. La città era in festa, e per il
singolare avvenimento giunse da Roma un Cardinale il quale, nella
notte precedente la proclamazione, volle presiedere lui stesso una
veglia di preghiera che si tenne nel Santuario. Poi, prima di
andare a dormire tutti, diede la parola a chi avesse voluto
chiedere qualcosa. Fu allora che si alzò un giovane e,
rivolgendosi proprio a me, mi chiese a bruciapelo il significato
di Basilica Minore. Gli risposi dicendo che “basilica” è una
parola che deriva dal greco e significa “casa del re”, e
conclusi con enfasi che il nostro santuario di Molfetta stava per
essere riconosciuto ufficialmente come dimora del Signore del
cielo e della terra. Il giovane, il quale tra l’altro disse che
aveva studiato il greco, replicò affermando che tutte queste cose
le sapeva già, e che il significato di basilica come casa del re
era per lui scontatissimo. E insistette testardamente: «Lo so
cosa vuol dire Basilica. Ma perché Basilica Minore?». Dovetti
mostrare nel volto un certo imbarazzo. Non avevo, infatti, le idee
molto chiare in proposito. Solo più tardi mi sarei fatta una
cultura e avrei capito che Basiliche Maggiori sono quelle di Roma,
e Basiliche Minori sono tutte le altre. Ma una risposta qualsiasi
bisognava pur darla, e io non ero tanto umile da dichiarare lì,
su due piedi, davanti a un’assemblea che mi interpellava, e
davanti al Cardinale che si era accorto del mio disagio, la mia
scandalosa ignoranza sull’argomento. Mi venne però un lampo
improvviso. Mi avvicinai alla parete del tempio e battendovi
contro, con la mano, dissi: «Vedi, Basilica Minore è quella
fatta di pietre. Basilica Maggiore è quella fatta di carne.
L’uomo, insomma. Basilica Maggiore sono io, sei tu! Basilica
Maggiore è questo bambino, è questa vecchietta, è il Signor
Cardinale. Casa del Re!». Il Cardinale annuiva benevolmente col
capo Forse mi assolveva per quel guizzo di genio. La veglia finì
che era passata mezzanotte. Fui l’ultimo a lasciare il
Santuario. Me ne tornavo a piedi verso casa, quando una macchina
mi raggiunse e alcuni giovani mi offrirono un passaggio. Lungo la
strada commentavamo insieme la serata, mentre il tergicristallo
cadenzava i nostri discorsi. Ma ecco che, giunti davanti al
portone dell’episcopio, si presentò allo sguardo una scena
imprevista. Disteso a terra a dormire, infracidito dalla pioggia e
con una bottiglia vuota tra le mani, c’era lui, Giuseppe. Sotto
gli abbaglianti della macchina, aveva un non so che di selvaggio,
la barba pareva più ispida, e le pupille si erano rapprese nel
bianco degli occhi. Ci fermammo muti a contemplarlo con tristezza,
finché la ragazza che era in macchina dietro di me, mormorò,
quasi sottovoce: «Vescovo, Basilica Maggiore o Basilica Minore?».
«Basilica Maggiore» risposi. E lo portammo di peso a dormire.
(don
Tonino Bello tratto da "Scrivo a voi...", Edizioni
Dehoniane, Bologna 1992, pp. 25-27)
Il mondo ha bisogno di voi
a
Il
mondo ha bisogno di voi per cambiare, per ribaltare la logica
corrente che è logica di violenza, di guerra, di dominio, di
sopraffazione. Il mondo ha bisogno di giovani critici. Vedete! Gesù
Cristo ha disarmato per sempre gli eserciti quando ha detto:
"Rimetti la spada nel fodero, perché chi di spada ferisce,
di spada perisce". Ma noi cristiani non siamo stati capaci di
fare entrare nelle coscienze questo insegnamento di Gesù.
Diventate voi la coscienza critica del mondo. Diventate
sovversivi. Non fidatevi dei cristiani "autentici" che
non incidono la crosta della civiltà. Fidatevi dei cristiani
"autentici sovversivi" come San Francesco d'Assisi che
ai soldati schierati per le crociate sconsigliava di partire. Il
cristiano autentico è sempre un sovversivo; uno che va
controcorrente non per posa ma perché sa che il vangelo non è
omologabile alla mentalità corrente. E verranno i tempi in cui
non ci saranno più né spade e né lance, né Tornado e né
aviogetti, né missili e né antimissili. Verranno quei tempi. E
non saremo più allucinati da questi spettacoli di morte! Non so
se li ricordate, se li avete letti in qualche vostra antologia
quei versi di Neruda in cui egli si chiede cosa sia la vita.
Tunnel oscuro - dice - tra due vaghe chiarità o nastro d'argento
su due abissi d'oscurità? …Perché la vita non può essere un
nastro d'argento tra due vaghe chiarità, tra due splendori? Non
potrebbe essere così la vostra vita? Vi auguro davvero che voi la
vita possiate interpretarla in questo modo bellissimo.
(don
Tonino Bello, tratto da "Senza misura")
|
ORIZZONTI
Bisogna
contemplare la vita dalle postazioni prospettiche del Regno di
Dio.
Assumere
la logica del Signore nel giudicare le vicende della storia.
Allargare
gli orizzonti fino agli estremi confini della terra.
Non
lasciarsi sedurre dall'effimero, o intristire dalla banalità
del quotidiano.
Introdurre
nei propri criteri di valutazione la misura dei tempi lunghi.
Non
comprimersi l'esistenza nelle strettoie del tornaconto, nei
vicoli ciechi dell'interesse, nei labirinti delle piccole
ritorsioni.
Non
deprimersi per i sussurri del pettegolezzo da cortile, o per le
grida dello scandalo farisaico, o per l'avvilimento improvviso di
un'immagine puntigliosamente curata.
Superare
la freddezza di un diritto senza carità, di un sillogismo senza
fantasia, di un calcolo senza passione, di un "logos"
senza "sophìa".
Non
lasciarsi sedurre dalle programmazioni elaborate allo spasimo, e
saper sorridere della nostra inettitudine costituzionale
delirante di efficienza.
(Don
Tonino Bello, da “Lessico di comunione”)
AUGURI SCOMODI
Carissimi,
non obbedirei al mio dovere di vescovo, se vi dicessi “Buon
Natale” senza darvi disturbo.
Io,
invece, vi voglio infastidire. Non sopporto infatti l’idea di
dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla routine di
calendario.
Mi
lusinga addirittura l’ipotesi che qualcuno li respinga al
mittente come indesiderati.
Tanti
auguri scomodi, allora , miei cari fratelli!
Gesù
che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda,
senza spinte verticali e vi conceda di inventarvi una vita carica
di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio.
Il
Bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire
il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finché non
avrete dato ospitalità a uno sfrattato, a un marocchino, a un
povero di passaggio.
Dio
che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la
vostra carriera diventa idolo della vostra vita, il sorpasso, il
progetto dei vostri giorni, la schiena del prossimo, strumento
delle vostre scalate.
Maria,
che trova solo nello sterco degli animali la culla dove deporre
con tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi
occhi feriti a sospendere lo struggimento di tutte le nenie
natalizie, finché la vostra coscienza ipocrita accetterà che il
bidone della spazzatura, l’inceneritore di una clinica diventino
tomba senza croce di una vita soppressa.
Giuseppe,
che nell’affronto di mille porte chiuse è il simbolo di tutte
le delusioni paterne, disturbi le sbornie dei vostri cenoni,
rimproveri i tepori delle vostre tombolate, provochi corti
circuiti allo spreco delle vostre luminarie, fino a quando non vi
lascerete mettere in crisi dalla sofferenza di tanti genitori che
versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, senza
salute, senza lavoro.
Gli
angeli che annunciano la pace portino ancora guerra alla vostra
sonnolenta tranquillità incapace di vedere che poco più lontano
di una spanna, con l’aggravante del vostro complice silenzio, si
consumano ingiustizie, si sfratta la gente, si fabbricano armi, si
militarizza la terra degli umili, si condannano popoli allo
sterminio della fame.
I
Poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano
nell’oscurità e la città dorme nell’indifferenza, vi
facciano capire che, se anche voi volete vedere “una gran
luce” dovete partire dagli ultimi.
Che
le elemosine di chi gioca sulla pelle della gente sono
tranquillanti inutili.
I
pastori che vegliano nella notte, “facendo la guardia al gregge
”, e scrutano l’aurora, vi diano il senso della storia,
l’ebbrezza delle attese, il gaudio dell’abbandono in Dio.
E
vi ispirino il desiderio profondo di vivere poveri che è poi
l’unico modo per morire ricchi.
Buon
Natale! Sul nostro vecchio mondo che muore, nasca la speranza.
(Don
Tonino Bello)
|
TU
E DIO:
Ai
suoi amici il Signore dà il pane nel sonno
Eccoci,
Signore, davanti a te. Col fiato grosso, dopo aver tanto
camminato. Ma se ci sentiamo sfiniti ,non è perché abbiamo
percorso un lungo tragitto, o abbiamo coperto chi sa quali
interminabili rettilinei. È perché, purtroppo, molti passi, li
abbiamo consumati sulle viottole nostre, e non sulle tue: seguendo
i tracciati involuti della nostra caparbietà faccendiera, e non
le indicazioni della tua Parola; confidando sulla riuscita delle
nostre estenuanti manovre, e non sui moduli semplici
dell’abbandono fiducioso in te. Forse mai, come in questo
crepuscolo dell’anno, sentiamo nostre le parole di Pietro:
“Abbiamo faticato tutta la notte, e non abbiamo preso nulla”.
Ad
ogni modo, vogliamo ringraziarti ugualmente. Perché, facendoci
contemplare la povertà del raccolto, ci aiuti a capire che senza
di te non possiamo far nulla. Ci agitiamo soltanto.
Grazie,
perché obbligandoci a prendere atto Dei nostri bilanci
deficitarii, ci fai comprendere che, se non sei tu che costruisci
la casa, invano vi faticano i costruttori. E che, se tu non
custodisci la città, invano veglia il custode. E che alzarsi di
buon mattino, come facciamo noi, o andare tardi a riposare per
assolvere ai mille impegni giornalieri, o mangiare pane di sudore,
come ci succede ormai spesso, non è un investimento redditizio se
ci manchi tu. Il Salmo 127, avvertendoci che, il pane, tu ai tuoi
amici lo dai nel sonno, ci rivela la più incredibile legge
economica, che lega il minimo sforzo al massimo rendimento. Ma
bisogna esserti amici. Bisogna godere della tua comunione. Bisogna
vivere una vita interiore profonda. Se no, il nostro è solo un
tragico sussulto di smanie operative, forse anche intelligenti, ma
assolutamente sterili sul piano spirituale. Grazie, Signore, perché,
se ci fai sperimentare la povertà della mietitura e ci fai vivere
con dolore l tempo delle vacche magre, tu dimostri di volerci
veramente bene, poiché ci distogli dalle nostre presunzioni
corrose dal tarlo dell’efficientismo, raffreni i nostri desideri
di onnipotenza, e non ci esponi al ridicolo di fronte alla storia:
anzi, di fronte alla cronaca. Ma ci sono altri motivi, Signore,
che, al termine dell’anno, esigono il nostro rendimento di
grazie. Grazie, perché ci conservi nel tuo amore. Perché ancora
non ti è venuto il voltastomaco per i nostri peccati. Perché
continui ad aver fiducia in noi, pur vedendo che tantissime altre
persone ti darebbero forse ben diverse soddisfazioni. Grazie,
perché non solo ci sopporti, ma ci dai ad intendere che non sai
fare a meno di noi. Perché ci infondi il coraggio di celebrare i
santi misteri, anche quando la coscienza della nostra miseria ci
fa sentire delle nullità e ci fa sprofondare nella vergogna.
Grazie, perché ci sai mettere sulla bocca le parole giuste, anche
quando il nostro cuore è lontano da te. Perché adoperi infinite
tenerezze, preservandoci da impietosi rossori, e non facendoci
mancare il rispetto dei fedeli, la comprensione dei collaboratori,
la fiducia dei poveri. Grazie, perché continui a custodirci
gelosamente, anzi, a nasconderci , come fa la madre con i figli più
discoli. Perché sei un amico veramente unico, e ti sei lasciato
così sedurre dall’amore che ci porti, che non ti regge
l’animo di smascherarci dinanzi alla gente, e non fai venir meno
agli occhi degli uomini i motivi per i quali, nonostante tutto,
continuiamo a essere reverendi . Grazie, Signore, perché non
finisci di scommettere su di noi. Perché non ci avvilisci per le
nostre inettitudini. Perché, al tuo sguardo, non c’è
bancarotta che tenga. Perché, a dispetto delle letture
deficitarie delle nostre contabilità, non ci fai disperare. Anzi,
ci metti nell’anima un così vivo desiderio di ricupero, che già
vediamo il nuovo anno come spazio della Speranza e tempo propizio
per sanare i nostri dissesti. Spogliaci, Signore, d’ogni
ombra di arroganza. Rivestici dei panni della misericordia e della
dolcezza Donaci un futuro gravido di grazia e di luce E di
incontenibile amore per la vita. Aiutaci a spendere per te Tutto
quello che abbiamo e che siamo. E la Vergine tua madre ci
intenerisca il cuore. Fino alle lacrime.
(Don
Tonino Bello)
"VIVERE
DA INNAMORATI..."
Innamorarsi
di Gesù Cristo, come fa chi ama perdutamente una persona e
imposta tutto il suo impegno umano e professionale su di lei,
attorno a lei raccorda le scelte della sua vita, rettifica i
progetti, coltiva gli interessi, adatta i gusti, corregge i
difetti, modifica il suo carattere, sempre in funzione della
sintonia con lei. Cosa non fa ad esempio un uomo per la sua donna,
perché ha impostato la sua vita su di lei? Osservando la vita di
tanti nostri amici, dei nostri compagni di studi, ci accorgiamo
come l'amore totalizzante investe non soltanto l'aspetto della
loro affettività, ma trascina nel suo vortice i giorni, le notte,
il riposo, il lavoro, la gioia, il dolore, le delusioni, le
speranze. E'un investimento totale. Quando parlo di innamoramento
di Gesù Cristo voglio dire questo: un investimento totale della
nostra vita. Per noi il Signore non e' una fascia, una frangia, un
merletto, sia pure notevole, che si aggiunge al panneggio della
nostra esistenza. L'amore per Cristo, se non ha il marchio della
totalità, e' ambiguo. Il Part-time, il servizio a ore, magari col
compenso maggiorato per lo straordinario, con Cristo non e'
ammissibile; un servizio a ore saprebbe di mercificazione.
Innamorarsi di Gesù cristo vuol dire: conoscenza profonda di lui,
dimestichezza con lui, frequenza diuturna nella sua casa,
assimilazione del suo pensiero, accoglimento senza sconti delle
esigenze più radicali del Vangelo. Vuol dire ricentrare davvero
la vita intorno al Signore Gesù, perché la nostra esistenza,
come diceva Dietrich Bonhoeffer, diventi "una esistenza
teologica".
(tratto
da "Cirenei della Gioia - esercizi spirituali predicati a
Lourdes"
di
don Tonino Bello Ed. San Paolo, pag.81)
CARO
GESU’
Ho
faticato non poco a trovarti.
Ero
persuaso che tu stessi laggiù,
dove
il Giordano rallenta la sua corsa
tra
i canneti e i ciottoli,
scintillando
sotto il velo tremante dell'acqua,
rendendo
più agevole il guado.
C'è
tanta folla in questi giorni che si accalca lì,
sulla
ghiaia del greto, per ascoltare Giovanni,
il
profeta di fuoco che non si lascia spegnere neppure nel fiume.
Immerso
fino ai fianchi dove il letto sprofonda
e
la corrente crea mulinelli di schiuma,
invita
tutti a entrare nell'acqua,
per
rivivere i brividi di un esodo antico e
mantenere
vive le promesse, gonfie di salvezza.
In
un primo momento,
conoscendo
la tua ansia di convivere con la gente,
e
sapendo che la tua delizia è stare
con
i figli dell'uomo,
pensavo
di trovarti in quell'alveare
di
umanità brulicante sugli argini.
Qualcuno,
però, che pure ti ha visto uscire
dal
Giordano,
grondante
di acqua e di Spirito,
e
mescolarti tra la turba di pubblicani e peccatori,
di
leviti e farisei, di soldati e prostitute,
mi
ha detto che da qualche giorno
eri
scomparso dalla zona.
Ora,
finalmente, ti ho trovato.
Ed
eccomi qui, accanto a te,
non
so bene se condotto anch'io dallo Spirito,
in
questo misterioso deserto di Giuda,
tana
di fiere e landa di ululati solitari.
(Don
Tonino Bello)
|
VITA:
Al
fratello che lavora in una fabbrica di armi
Caro
operaio,
non
si direbbe. Ma scrivere a tè, che con altri ottantamila compagni
di lavoro strappi la vita in una delle trecento fabbriche di morte
disseminate in Italia, è più difficile che scrivere al Sottosegretario
della Difesa.
Sì,
perché a protestare sulla produzione delle armi con i fun-zionari
delle cancellerie diplomatiche, male che vada, ti tiri addosso
solo un po' di compatimento e qualche sorriso divertito sulla tua
ingenuità.
Ti
diranno, ammiccando, di apprezzare molto i tuoi vaporosi aneliti
di pace, ma che poi bisogna saper stare con i piedi per terra.
Ti
faranno intendere con eleganza che a un vescovo si addice meglio
tracciare benedizioni solenni, piuttosto che impicciarsi di
fabbriche di armi e dei relativi traffici clandestini.
Al
massimo, con le manovre della più scoperta sufficienza, ti
esprimeranno il fastidio di dover discutere di certe cose con chi
sa solo citare il profeta Amos o S. Tommaso o, all'occorrenza,
qualche teologo della liberazione, ma poi non sa nulla di Keynes
o di Gaibraith o di tutte le diavolerie della scienza economica.
Tutto
sommato, però, se si sa sostenere il peso dell'ironia, ti
verranno sottomano tali argomentazioni da «scacco matto», che si
possono mettere in crisi anche i ragionamenti più sofisticati.
Scrivere a tè, invece, riesce quasi impossibile. Perché non
regge a nessuno l'animo di dirti che, sia pure incolpevolmente, tu
collabori a seminare la morte sulla terra.
E
neanch'io tè lo voglio dire.
Hai
già tanti problemi sulle spalle, che non mi sento di gravarti
la coscienza di un ulteriore fardello.
Sei
così preoccupato, come tutti i lavoratori, dagli spettri della
fame, che non mi va di intossicarti anche quei quattro soldi che
ti danno.
Hai
così viva la percezione di essere vittima di una squallida catena
di sfruttamento, che sarebbe crudeltà dirti senza mezzi termini
che, oltre che oppresso, sei anche oppressore.
Mi
sembrerebbe di ucciderti moralmente, prima ancora che le armi
confezionate dalle tue mani potessero fare strage di altri
innocenti. Povero fratello operaio. Sei veramente «chiuso in una
spira 2 mortale» direbbe Ungaretti che non era un economista
neppure lui, e neanche un alto funzionario dei ministeri romani.
Ma era un uomo. Quell'uomo che ti auguro di riscoprire in tè, e
che ti fa vomitare di disturbo di fronte all'ipocrisia di chi
con un occhio piange di commozione sulla fame del Terzo Mondo, e
con l'altro fa cenni d'intesa con i generali.
Quell'uomo
che si ribella in tè quando scorge che, dopo mezzo secolo, c'è
ancora chi in alto loco è sensibile al fascino di antichi
ritornelli imperiali, trascritti purtroppo sullo stesso
pentagramma di profitto: «colonnello, non voglio pane; voglio
piombo pel mio moschetto!».
Quell'uomo
nascosto in tè, che impallidisce di orrore quando si accorge che
il desiderio segreto (se non l'istigazione palese) degli
industriali della morte è quello che le armi da loro prodotte
vengano usate, dal momento che il consumo, secondo le più
elementari leggi di mercato conosciute anche da chi non sa nulla
di Keynes o di Gaibraith, è l'asse portante di ogni rapporto
commerciale.
Quell'uomo
che nelle profondità del tuo spirito freme di sdegno quando si
accorge che la gente, più che lo smantellamento delle fabbriche
maledette, chiede solo la abolizione del segreto che copre il
traffico delle armi. O quando il governo decide di non vendere
strumenti di morte solo ai pazzi più esagitati del manicomio
internazionale. Come se, dirottando in zone più tranquille gli
strumenti di. guerra, non rimanesse sempre in piedi la stessa
logica distruttiva.
Quell'uomo
interiore che rimane mortificato quando sa che la stessa cifra
stanziata dall'Italia per armamenti, destinata invece per
programmi civili, creerebbe trentamila posti di lavoro in più.
Quell'uomo
pulito che dorme dentro di tè, e che la sera, quando torni a
casa, ti spinge ad accarezzare senza titubanze il volto dolcissimo
della tua donna; e ti fa porre le mani sul capo incontaminato dei
tuoi figli, senza paura che un giorno si ritorcano su di loro,
come un tragico boomerang, le armi che quelle stesse mani hanno
costruito. Certo,
se io fossi coraggioso come Giovanni Paolo II, dovrei ripeterti
le sue parole accorate: «Siano disertati i laboratori e le
officine della morte per i laboratori della vita!».
Ma,
a parte il debito di audacia, debbo riconoscere che il Papa si
rivolgeva agli scienziati. I quali di solito, almeno economicamente,
hanno più di una ruota di scorta. Tu invece ne sei privo. E anche
le ruote necessario, se non sono proprio forate, hanno le gomme
troppo lisce perché tu possa permetterti manovre pericolose.
Non
ti esorto perciò, almeno per ora, a quella forte testimonianza
profetica di pagare, con la perdita del posto di lavoro, il
rifiuto di collaborare alla costruzione di strumenti di morte.
Ma
ti incoraggio a batterti perché si attui al più presto, e in
termini perentori, la conversione dell'industria bellica in
impianti civili, produttori di beni, atti a migliorare la qualità
della vita.
È
un progetto che va portato avanti. Da tè. Dai sindacati. Da
tutti. Con urgenza. Con forza. Chiedendo solidarietà. Invocando
consensi.
Forse
l'ultima alternativa di pace per il mondo sei proprio tu, povero
operaio, che vivi all'epicentro di questo apocalittico vortice
di morte.
Non
scoraggiarti. Tu sei la nostra superstite speranza. Se tutti gli
ottantamila tuoi compagni di lavoro si mobiliteranno, il sogno di
Isaia diventerà presto realtà.
Anzi,
ci pare già di vedere, quasi in una miracolosa dissolvenza
cinematografica, le spade che si trasformano in vomeri tra le tue
mani, e le lance che si incurvano in falci al sole della
primavera. Mentre la scritta «the end» si sovrappone non a
commentare immagini di catastrofi planetarie. Ma a concludere per
sempre l’era lunghissima della nostra preistoria.
Ti
abbraccio.
2
febbraio 1986
+
don TONINO, Vescovo
|
ARCOBALENO
Spesse
volte facciamo soltanto i misuratori dei cubiti d'acqua che
lambiscono le fiancate dell'arca, come faceva Noè. Abbiamo in
mano gli scandagli per dire che ormai siamo arrivati al livello
di guardia. Insomma, siamo un po' troppo misuratori del diluvio.
Certo,
questo dobbiamo farlo: dobbiamo prendere atto del livello
dell'acqua che sale. Ma dobbiamo anche stare sulla tolda per
scorgere l'arcobaleno, cioè i segni di speranza, e intuire
l'arrivo della colomba che porta l'ulivo.
Se
facciamo talvolta la radiografia impietosa dell'esistente, non
è certo per scomunicare il mondo ma per amarlo di più e starali
vicino.
(Don Tonino Bello, da “Chiesa di
parte”)
(...)
Anch'io sono testimone del diluvio: quello dell'intolleranza,
della prevaricazione, del razzismo contro gli immigrati, della
violenza quotidiana contro i minori, le donne, gli zingari, i
meridionali, gli irriducibili alla nostra norma di persone
perbene. Come lettore attento di quanto sta accadendo in varie
città d'Italia, sono testimone anch'io del pregiudizio nei
confronti degli altri, quasi che i poveri, i tossici, gli zingari,
i terzomondiali non possono darci mai nulla di buono, e a dare
possiamo essere solo noi figli di una civiltà più raffinata.
Ma
sono testimone anche dell'arcobaleno.
Soprattutto,
l'arcobaleno del volontariato. C'è un'incredibile economia
sommersa di generosità e di dono. C'è un'inarrestabile volontà
di pace che si esprime perfino con la protesta nei confronti dei
moduli correnti della logica della guerra. Circola una diffusa
richiesta di senso, che interpreta il tempo speso per gli altri
come l'unico investimento produttivo nella borsa valori della
vita.
Vi
parlo come testimone. Vi metto a parte della mia fede martiriale.
(Don
Tonino Bello, da “Frammenti”)
Portare ovunque l'acqua della pace
a
Chi
sono gli operatori della pace? Sono i tecnici delle condutture;
gli impiantisti delle reti idrauliche; gli esperti delle
rubinetterie. Sono coloro che, servendosi di tecniche
diversificate, si studiano di portare l'acqua della pace nella
fitta trama dello spazio e del tempo, in tutte le case degli
uomini, nel tessuto sociale della città, nei luoghi dove la gente
si aggrega e fioriscono le convivenze. Qui è bene sottolineare
una cosa. L'acqua è una : quella della pace. Le tecniche di
conduzione, invece, cioè le mediazioni politiche, sono diverse. E
diverse sono anche le ditte appaltatrici delle condutture, ed è
giusto che sia così. L'importante è che queste tecniche siano
serie, intendano servire l'uomo e facciano giungere l'acqua agli
utenti. Senza inquinarla. Se lungo il percorso si introduce del
veleno, non si serve la causa della pace. Senza manipolarla. Se
nell'acqua si inseriscono additivi chimici, magari a fin di bene,
ma derivanti dalle proprie impostazioni ideologiche, non si serve
la causa della pace. Senza disperderla. Se lungo le tubature si
aprano falle, per imperizia o per superficialità o per mancanza
di studio o per difetti tecnici di fondo, non si serve la causa
della pace. Senza trattenerla. Se nei tecnici prevale il calcolo,
e si costruiscono le condutture in modo tale che vengano favoriti
interessi di parte, e l'acqua, invece che diventare beni di tutti,
viene fatta ristagnare per l'irrigazione dei propri appezzamenti,
non si serve la causa della pace. Senza accaparrarsela. Se gli
esperti della condutture si ritengono loro i padroni dell'acqua e
non i ministri, i depositari incensurabili di questo bene di cui
essi devono sentirsi solo i canalizzatori, non si serve la causa
della pace. Senza farsela pagare. Se i titolari della rete idrica
si servono delle loro strumentazioni per razionare astutamente le
dosi e schiavizzare la gente prendendola per sete, non si serve la
causa della pace. Si serve la causa della pace quando l'impegno
appassionato dei politici sarà rivolto a che le città vengano
allagate di giustizia, le case siano sommerse sai fiumi di
rettitudine e le strade cedano sotto una alluvione di solidarietà,
secondo quello splendido versetto del profeta Amos :" Fate in
modo che il diritto scorra come acqua di sorgente, e la giustizia
come un torrente sempre in piena " (Am 5,24).
(don Tonino Bello tratto da "Vegliare nella
notte", pagg 14-15)
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