Giancarlo
Caselli
Giancarlo Caselli è direttore
generale
del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria.
In
passato è stato uno dei giudici più importanti
contro i reati di
terrorismo delle Brigate Rosse.
Dal 93 fino al 1999 è stato
procuratore della repubblica a Palermo.
Il
fenomeno dell’emigrazione nel
nostro tempo ha assunto dimensioni bibliche, una parte non piccola
di questo flusso finisce in carcere, è il livello estremo dello
sconfitta di un sogno di emancipazione. Spesso l’emigrazione non
è frutto di una scelta libera, ma è costretta dalla miseria,
dalla paura, dalla persecuzione, dalla guerra, dalla negazione
della cultura, della razza d’origine. Chi lascia il proprio
paese non lo fa senza una ragione grave e questo dovrebbe essere
chiaro soprattutto ad un popolo come il nostro che ha dato
all’emigrazione un contributo enorme. Il sogno ad un certo punto
si infrange ed così che si arriva alla criminalità. Ci sono però
altre forme di criminalità internazionale, nuove mafie difficili
da combattere, perché sono ancora poco conosciute e difficili da
penetrare. La presenza degli stranieri nelle carceri è costituita
in gran maggioranza da individui che hanno violato la legge
penale, ma sono anelli ultimi di una catena.
Non
ci sono in carcere extracomunitari clandestini o irregolari per il
fatto di essere clandestini o irregolari. La violazione delle
norme che regolano l’immigrazione non dà luogo a reato e ad
incarcerazione. Gli irregolari in base alla normativa vigente
vengono espulsi, se si ignora la loro identità e sin quando
l’espulsione non è realizzabile sono trattenuti nei cosiddetti centri
di accoglienza i quali al di là del nome accattivante
purtroppo sono di fatto molto simili a carceri, quando addirittura
peggio. E’ giusto allora dire che gli stranieri detenuti lo sono
perché hanno commesso dei reati e che per loro non possono valere
regole diverse da quelle che nelle circostanze condurrebbero in
carcere un italiano. Il problema è se poi all’interno del
carcere valgono o no le stesse regole che dovrebbero valere per i
cittadini. C’è un altro fatto: il rapporto tra popolazione di
extracomunitari e percentuale di detenuti extracomunitari, questo
rapporto è decisamente superiore a quello tra popolazione
nazionale e percentuale di detenuti italiani. Ecco le cifre: il
rapporto tra popolazione generale e numero dei detenuti italiani
è di circa 90 a 100000, meno dello 0,1%. Invece il rapporto tra
popolazione di extracomunitari presente sul territorio italiano e
percentuale di stranieri detenuti sfiora il livello di 1005 a
100000, ossia l’1,5% della popolazione straniera; 15 volte il
rapporto che corre tra popolazione italiana e popolazione
detenuta. E’ allora evidente che a parità di popolazione la
presenza di extracomunitari è molto maggiore rispetto alla
presenza degli italiani.
Anche
senza ricorrere a spiegazioni che facciano leva sulla maggiore
facilità di colpire persone scarsamente difese, e quindi su una
naturale selettività dell’apparato repressivo, sono spiegazioni
che certamente hanno un fondo di verità, ma sono difficili da
dimostrare, perché è noto che le condizioni di difficoltà
economica sono dei fattori correlati alla commissione di reati per
la mancanza di alternative lecite. Comunque i dati confermano
un’intuizione comune: spesso la strada dell’immigrazione
clandestina si conclude nel reato e nel carcere. Un fenomeno
complesso anche per le sue dimensioni. Allora ci si chiede cosa
fare. La mia risposta è abbastanza scontata ed è stata già
anticipata nell’introduzione: bisogna operare là dove questi
flussi hanno origine per provare ad attenuare le difficoltà che
spingono milioni di persone ad abbandonare la propria terra e con
essa gli affetti, le famiglie, le tradizioni. Si tratta di porre
la sfida a livello delle cause per affrontarle in una prospettiva
rispettosa dei valori umani. Siamo all’inizio di un nuovo
millennio e dovrebbe coincidere con un modo nuovo di porre il
problema che trascenda la dimensione assistenzialista, che
privilegi la dimensione dei diritti. Chi è il titolare dei
diritti? Tutti. Coloro che si vedono negati questi diritti fino al
punto di essere costretti a un’emigrazione drammatica. La
pietà non deve essere il surrogato della dignità umana, la
carità non deve impedire l’affermazione della giustizia, ma
deve intervenire dopo che si è fatto ogni sforzo perché la
giustizia si realizzi. Avrete sentito parlare di Luciano Tavazza ,
presidente della Fondazione italiana per il volontariato scomparso
recentemente. Tavazza disse che chi ama vuole la giustizia per
l’altro e non soltanto per sé medesimo. Nel volere
la giustizia per tutti si manifesta una delle forme
dell’amore che io credo sia la più adatta alle esigenze del
tempo. Volere la giustizia significa porre e poi difendere regole
di vita che consentano di trattare tutta l’umanità come una
famiglia unita. Per quanto riguarda il fenomeno
dell’immigrazione forzata ciò significa operare perché le
condizioni che ostacolano la realizzazione umana nei paesi di
provenienza possano essere ridotte e magari superate.
Il
carcere
ha subito una profonda trasformazione: più che argine alla
delinquenza più pericolosa, secondo un progetto di riforma del
Codice Penale elaborato dalla Commissione presieduta dal professor
Grosso, dovrà essere un’estrema ratio anche se ultimamente si
fanno pressanti le richieste di carcere sempre e comunque. Oggi il
carcere invece di essere argine a fronte delle manifestazioni
delinquenziali più pericolose è diventato un contenitore di
soggetti che hanno violato la legge penale. Soggetti che sono
anche protagonisti dei problemi sociali, il 30% sono
tossicodipendenti, il 25% sono extracomunitari, per cui bisogna
domandarsi se il carcere sia davvero l’unica risposta possibile
e giusta o se invece sia più utile combinare con esso altre
sanzioni. Il carcere è considerato il tappeto sotto il quale
nascondere cose che non si sanno gestire altrimenti. In questa
discarica sociale circa 14000 sono stranieri. Per tutti i detenuti
il carcere è anche luogo di privazione della libertà, di
sofferenza dovuta per legge, ma dovrebbe essere anche luogo di
diritti.
Può
essere luogo di contatto a volte per prima volta con la tutela a
chi ha avuto soltanto esperienze della prevalenza della forza. Vi
sono spazi perché vi sia anche questa sperimentazione e si tratta
di dilatare questi spazi. Il detenuto dovrebbe sperimentare che le
regole giuridiche non funzionano solo contro di lui, ma anche per
lui; che egli non ha soltanto doveri, ma anche diritti e interessi
tutelati; che l’apparato non è concepito per essergli ostile,
ma per riconoscerlo come soggetto di diritto; che lo stato è
tenuto ad osservare quelle regole che si impongono come comuni e
non come strumenti ingannatori unilaterali e infine che esiste il
Giudice di sorveglianza, il quale persino d’ufficio deve
intervenire a vigilare sul rispetto dei diritti. Questa figura ha
un’importanza fondamentale, ha una presenza educativa
soprattutto considerando che essa si colloca in un mondo ove il
diritto è vissuto in partenza come qualcosa di ostile. Avrete
sentito dire che la legge Gozzini ha il merito di aver salvato le
carceri dalla violenza, in parte è vero, ma se ci si limita a
questo, si dà un’interpretazione della legge in termini
utilitaristi, evitiamo il confronto con i giudizi di valore,
mentre dovrebbe essere chiaro che l’introduzione della legalità
nella gestione della pena detentiva possiede un grande significato
in termini educativi. E’ appunto il Magistrato di sorveglianza
che fa entrare la giurisdizione all’interno dell’esecuzione
della pena detentiva.
Questo
è il quadro teorico in cui il nostro paese è all’avanguardia,
altro è il conto se ci spostiamo sul versante
dell’effettività. I diritti sono riconosciuti, ma subiscono
pesantissime limitazioni, in modo particolare per gli stranieri.
La Magistratura di sorveglianza è in crisi per carenza di
organici e si riesce a rispondere quando è ormai tardi. Nel
pacchetto giustizia è previsto il reclutamento straordinario di
mille magistrati, molti da destinare agli Uffici di sorveglianza.
Altra pesante limitazione deriva dal sovraffollamento di 14000
unità. Molto spesso i detenuti devono fare a turno per rimanere
in piedi in cella. L’amministrazione penitenziaria è l’unica
che non ha in mano la leva per regolare l’entità della presenza
carceraria, questa leva è altrove: il Governo insieme al
Parlamento con leggi che prevedono le pene per determinati reati,
poi c’è la Magistratura giudicante e quella di sorveglianza.
Altro fattore di limitazione dei diritti è che un diritto
fondamentale del detenuto scritto nella nostra Carta
Costituzionale, nelle nostre coscienze, nei doveri di una stato
civile è che la pena deve tendere anche alla sua rieducazione.
Oggi non c’è spazio per il recupero, perché il
sovraffollamento significa eliminazione degli spazi fisici. Qui è
all’orizzonte un fondo speciale di 300 miliardi stanziato per la
prima volta in questa direzione. Un altro aspetto è quello della
formazione professionale per impedire che il detenuto cada nella
spirale della recidiva. Oggi per il lavoro dei detenuti si fa poco
e proprio il messaggio pontificio per il Giubileo è che si deve
fare di più. Le prospettive non sono nere, il Parlamento ha
approvato la cosiddetta legge Smuraglia che offre per la prima
volta effettive possibilità. Poi c’è il problema della salute,
il carcere è specchio di una realtà extracarceraria: la sanità
nel nostro paese funziona ora bene ora meno bene, così è nel
carcere con le complicazioni derivanti dal passaggio di competenze
ancora in atto dal penitenziario alla sanità nazionale, ma anche
qui vi sono limitazioni dei diritti per circostanze di fatto.
Esistono
misure alternative al carcere, ma per gli stranieri vengono prese
solo occasionalmente, perché mancano obbiettivamente i requisiti
previsti dalla legge. E’ difficile applicare al detenuto
extracomunitario le misure alternative, perché questi soggetti
non hanno punti di riferimento esterni, se li hanno sono in nero o
contigui alle aree criminali. Né durante il processo, né durante
l’esecuzione della pena riescono a ottenere misure diverse dalla
detenzione. Questo significa che il detenuto straniero finisce per
scontare una maggiore permanenza media rispetto agli altri a parità
di reato. Si tengono in carcere persone non particolarmente
pericolose anche perché mancano di lavoro, di famiglia, di case,
il che significa che lo stato di precarietà in cui sono costretti
rappresenta il discrimine per la permanenza in carcere laddove
aveva già rappresentato la causa originaria dell’emigrazione e
quindi l’inserimento in un circuito che a volte si conclude con
la detenzione. Il sovraffollamento delle carceri significa mobilità
intensa quasi quotidiana e per quanti detenuti entrano ci dev’essere
un flusso in uscita, considerando la precarietà sociale dello
straniero, questi purtroppo viene più facilmente trasferito. Così
l’ostilità che lo caratterizza quando è libero lo insegue
anche quando è detenuto. Molti amministratori locali non vogliono
la presenza di molti extracomunitari nelle carceri del loro
territorio, perché quando temono che ottenuta la libertà
insediandosi sul quel territorio possano espandersi fenomeni che
essi cercano di limitare. Questa è una situazione di non facile
soluzione e oggi sempre di più mi chiedo cos’è la legalità.
Io ho un timore: la legge dovrebbe essere uguale per tutti? Il
controllo della legalità dovrebbe svolgersi ricorrendo a dei
presupposti nei confronti di tutti allo stesso modo? La legalità
sempre più temo rischi di diventare protezione per gli inclusi e
nuova forma di discriminazione per chi è già in partenza
escluso. Non è tanto un problema di titolarità della legalità
quanto piuttosto di contenuti della legalità, di significato di
questa parola che non può non essere di speranza.
Cosa
si sta cercando di fare per il problema dei detenuti stranieri?
C’è un problema di formazione del personale, dobbiamo
moltiplicare la presenza di mediatori culturali stipulando
convenzioni con organismi specializzati, c’è un nuovo
regolamento di vita penitenziaria appena entrato in vigore e ci
vorranno cinque anni perché sia a pieno regime. Ci sono, a Torino
in particolare, sperimentazioni di attività di formazione
professionale proiettate per chi voglia rientrare nelle esigenze
di mercato del paese d’origine cercando di dare un contributo
alla soluzione dei problemi a monte. C’è l’attività
insostituibile delle mille forme di volontariato laico e
cattolico. Non si può
essere ottimisti, sarebbe un ottimismo di maniera, ma neanche si
deve essere pessimisti. Realisti, attenti alla complessità del
problema senza superficialità. Il nostro paese ha tanti problemi,
ma molti di questi, come il terrorismo,
lo stragismo, è riuscito a superarli. E’ un paese che ha
dimostrato insieme a tanti difetti, di avere anche gli antidoti
dentro di sé per superare queste difficoltà. Nonostante gli
ostacoli posti a volte dalle istituzioni le mille manifestazioni
di volontariato a volte ci hanno consentito di sopravvivere e di
crescere. Non sono pessimista, perché queste esperienze mi
consentono di dire che possiamo provare e riuscire a farcela anche
stavolta.
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