In
questa prima sezione, cerchiamo di conoscere più da
vicino fr. Joel.
Ecco
un'intervista realizzata dallo staff di
giovaniemissione:
E’ una domanda non così semplice, perché
va fino alla mia identità più profonda. Se
fosse soltanto una identità convenzionale
basterebbe con dire che io sono JOEL
CRUZ REYES FRATELLO MISSIONARIO COMBONIANO
MESSICANO.
Ma non voglio fermarmi al superficiale, vado alla mia “essenza”, che
scaturisce da un cuore indigeno.
In questo senso devo rifarmi al concetto di persona proprio della mia
cultura nella quale l’essere umano è “volto
e cuore” frutto di una storia concreta,
e allo stesso tempo è “sogno”,
progetto storico con dimensione di passato,
presente e futuro.
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Nella mia eredità indigena, il nome spiega la persona: la sua
interiorità (cuore), il suo agire (volto) e il suo
progetto (sogno). Quando mi sono messo a leggere in
profondo il mio nome ho scoperto che è composto da un
elemento biblico (Goel = Joel ) e un elemento
cristiano (Cruz = Croce, Reyes=Re). In un primo
momento questa scoperta è stata per me una tragedia:
Bibbia e Cristianesimo nascondevano in me un
“incontro-scontro” fra i miei antenati e la
cultura occidentale (Spagna): luci ed ombre fanno
parte già del mio essere profondo.
Ho portato questo nome come indigeno, in un lungo processo fatto di
tragedia, odio, rassegnazione, poi perdono,
riconciliazione e perfino gratitudine. Questo nome si
è incarnato nella mia esperienza personale e
collettiva (popolo indigeno mixteco) fatta di povertà,
emarginazione, discriminazione, esclusione… ma anche
fatto di contemplazione, di relazione fraterna con la
natura, di speranza e resistenza, di uno spirito che
parla con Dio in tutto.
Insomma, questo indigeno mixteco che sono io è diventato il luogo
d’incontro dello spirito occidentale (con la sua
paradossale intenzionalità di dominazione e
“salvazione”) e lo spirito indigeno (fatto di
contemplazione, perdono, riconciliazione e
resistenza).
L’incontro con Daniele Comboni mi aprì le porte al carisma
missionario: il luogo concreto di comunione e
partecipazione di tutti gli elementi del mio essere
profondo, di questi due “spiriti” (occidentale e
indigeno) in funzione dei miei fratelli più poveri ed
abbandonati.
È
stata la porta verso l’universalità
della mia esperienza: sono diventato dono per tutti.
E attraverso Comboni ho trovato il Fratello
universale: Gesù. Un Fratello libero, talmente libero
che neanche il peccato, la religione, le ideologie gli
hanno impedito di essere fratello di tutti.
Per
questo sono diventato fratello missionario.
Con Daniele Comboni mi sono reso conto che sono
comboniano.
Per concludere: la mia identità scaturisce dagli antenati collegati
direttamente con il mio nome: il profeta Joel
(Gioele), Gesù crocifisso e Re (Cruz Reyes) e Daniele
Comboni.
Questi antenati fanno il mio cuore-volto e il mio sogno.
Nel concetto d’identità indigeno la persona è la
presenza degli antenati oggi e qui, ed è sempre una
spirale aperta ogni volta più larga che cresce
sempre. Cioè io sono un
cuore-volto ed un sogno frutto d’incontri con
persone, culture, situazioni… nel passato, presente
e futuro. Questo è il significato più
profondo quando dico: “Io sono Fratello Joel
Cruz Reyes, missionario comboniano, messicano”.
Quindi, il mio progetto di futuro è il mio nome
stesso.
Chi
sono i popoli che hai conosciuto?
Cosa
puoi dirci, in particolare, a proposito dei
giovani in quei popoli? |
Come
ho detto prima io sono parte del popolo indigeno
mixteco nel sud del Messico e ho vissuto per un
tempo con il popolo p’urepecha o Tarasco (indigeni
dal centro occidente del Messico). Poi in Colombia ho
accompagnato il popolo indigena Sikuani nelle
pianure orientali vicino all’Amazzonia in un
contesto di guerriglia, dopo ho fatto un cammino con la
gente nelle periferie urbane di Bogotà (in un
contesto di estrema povertà e di violenza urbana). In
Ecuador la mia presenza di accompagnamento è stata
fra gli afroecuatoriani (i neri ecuadoriani
della costa in un contesto urbano e di campagna, di
discriminazione, povertà e violenza).
In questo senso posso dire alcune cose sui giovani delle aree marginali
di Bogotà (Colombia), Guayaquil (Ecuador), dei
giovani indigeni (Messico-Colombia-Ecuador), e dei
giovani afroecuatoriani della costa ecuadoriana. Tutti
comunque con la esperienza di essere la
“periferia” a livello socioeconomico, culturale e
religioso.
Sono tre i tipi di giovani che ho conosciuto e accompagnato. Comincio
per dire alcune caratteristiche specifiche:
a). I giovani della periferia urbana (Bogotà – Guayaquil ), in
maggioranza sono meticci, cioè discendenti da europei
e indios o africani, con un riferimento culturale
occidentale dominante. Con un complesso di superiorità
verso l’indigeno o il nero (Afro), ma con la loro
identità spezzata. Oltre a questo aspetto, i giovani
della periferia urbana vivono un contrasto
socio-economico terribilmente evidente, che fa
“sognare” loro una realtà diversa, ma che spesso
finisce in frustrazione per la mancanza d’opportunità
di studio e di lavoro. Da qui nascono diversi tipi di
violenza giovanile urbana, più o meno organizzata.
Spesso il loro pensiero, il loro grido, il loro sogno
vengono espressi nei muri della città (graffiti…).
Sono giovani forse lontano dalla Chiesa, ma
affascinati da Gesù.
b). I giovani indigeni: in loro ho trovato l’impronta della
povertà, dell’emarginazione, della discriminazione,
della coscienza di essere una “minoranza” etnica
considerata una “razza” di seconda o terza
categoria. Da questo scaturisce un grande complesso
d’inferiorità e uno stile di relazione che molti
definiscono a “doppia faccia”, come meccanismo di
sopravvivenza e resistenza. Il loro silenzio
contemplativo s’intreccia con la paura di essere
rifiutati, con la melanconia storica, con la
rassegnazione ad essere gli ultimi fra gli ultimi.
Innocenza, rabbia, desiderio di rivendicazione… Ma
allo stesso tempo una pazienza storica e una speranza
attiva vissuta nel silenzio. Questi sono i giovani
indigeni, che vedono nella storia il paradosso di una
chiesa complice e causa del loro male ma allo stesso
tempo unica compagna di cammino: amano la chiesa non
tanto per essere chiesa ma perché lì trovano Gesù
crocifisso, solidale con il loro popolo.
c).
I giovani afro (neri): figli dello sradicamento
e della schiavitù, vittime di una coscienza
collettiva che associa il nero con la violenza e la
delinquenza, con l’incapacità d’organizzazione.
Discriminazione, povertà, rifiuto… ma vissute nel
canto e nella danza al ritmo dei tamburi: per chi
guarda da lontano sembra una festa, ma in fondo sono
grida di denuncia, di resistenza, di liberazione
dall’odio, dalla disperazione, dalla frustrazione.
Queste
grida salgono verso il Dio africano nascosto dietro ai
nomi dei santi cristiani. Questi giovani, tramite i
loro antenati, hanno fatto di Cristo la loro forza;
attraverso la figura di Cristo crocifisso, come loro,
sono riusciti ad avvicinarsi e perdonare la Chiesa.
Posso dire che il giovane afro cosciente ama la Chiesa
per Cristo, non per quello che ha fatto o fa
nell’attualità.
È questo il volto giovanile latinoamericano che conosco, con la
grande potenzialità di chi sogna un mondo più giusto
e fraterno. La loro condizione di periferia sociale,
economica, culturale e religiosa non è un limite per
sognare come un cittadino del mondo uguale a tutti i
giovani del nord del pianeta. Ormai non esiste il
giovane “locale”, esiste il giovane “globale”,
penso e ogni volta in più rafforzo questa mia
convinzione, che la emigrazione
è espressione della voglia di realizzare questo sogno
globale di giustizia e di fraternità.
Il pericolo che vedo è che il cuore del giovane latinoamericano sta
diventando vicino al lontano, e lontano dal vicino (il
suo contesto concreto), con la grande possibilità
di diventare vittima dell’uniformità culturale
vuota di umanità promossa dal neoliberismo globale.
La sfida è riuscire creare lo spirito di comunione e partecipazione dei
“sogni”, cioè far suonare assieme la chitarra
(giovani meticci), la Kena (giovani indigeni) e il
Bombo (tamburo, giovani afro) nel concerto globale dei
giovani nel mondo.
Parlaci della chiesa che
hai incontrato nei vari paesi che conosci |
Parlare della Chiesa nei diversi paesi dove sono stato è molto
complesso. Mi limito a dire qualcosa del “volto
povero” della Chiesa dove sono stato. Con questo
vorrei che si superasse l’idea dei “poveri” come
“destinatari” o “preferenza” dell’azione
della Chiesa, come se i poveri latinoamericani pure
essendo la maggioranza dei battezzati non fossero
Chiesa.
Quando parlo del
“volto povero” della Chiesa parlo dei poveri che
sono Chiesa perché battezzati, e comunque presenti in
diversi modi come cattolici nel nostro continente.
Parlo di questo volto ecclesiale perché l’unica
esperienza che ho vissuto. Il cammino fatto come parte
di questo volto (in Messico, Colombia, Ecuador) mi ha
convinto che Dio, Gesù Cristo è lo stesso ovunque.
È lui che accompagna il suo popolo facendosi presente
nelle diverse devozioni, quello che gli “esperti”
chiamano “religiosità popolare” o
“sincretismo”, che per me
non è altro che l’iniziativa di Dio al
vedere il suo popolo abbandonato e non capito in
profondità.
In questa realtà pratica del povero ho capito che Dio
e soltanto Lui si lascia avvicinare dal suo popolo così
come Lui lo ha creato, cioè come indigeno, come nero…
ed è precisamente questa la potenzialità del volto
povero della Chiesa latinoamericana, è questa la sua
originalità, il suo dono alla Chiesa universale.
Questo volto della Chiesa latinoamericana guarda la Parola di Dio con
“innocenza intellettuale”, non perché è privo di
intelletto, ma perché legge la Parola senza
pregiudizi, senza ideologie, perché non ha accesso
alla teologia nè alla filosofia delle università. La
Parola diventa la sua unica scienza: la crede, la
vive. Il
suo punto di partenza non è un concetto, un’idea,
ma la sua vita quotidiana, la sua problematica
concreta. Si avvicina a Dio per chiedergli luce, per
capire, per avere speranza e forse una alternativa. In
altre parole, legge la Parola per vivere, perché
crede che la Parola di Dio serve per vivere, soltanto
per questo.
Fr. Joel, qual è il tuo
sogno come missionario comboniano? |
Lo trovi seguendo l’orizzonte del “salvare l’Africa con
l’Africa” e del “fare causa comune con i più
poveri e abbandonati”. Il mio sogno comboniano è lo
stesso del profeta Gioele: “fare
scoprire ad ogni uomo e donna che vive nella periferia
del sistema attuale, che lo Spirito del Signore è in
ognuno di loro, in tal modo che diventino
profeti che parlano in nome di Dio in favore dei
dimenticati, delle vittime del sistema.”
Vorrei soltanto aiutare a questi uomini e donne fratelli nostri a
ricuperare la capacità di sognare un mondo più
umano, giusto, fraterno. Ma non come sogno di una
persona che dorme, ma che è sveglia e cosciente che
il sogno non è un ideale o una utopia, ma una realtà
che comincia ad esistere dal momento che si comincia a
sognare, perché si trasforma in un nuovo modo di
relazione, in fonte d’iniziative, proposte, diversi
modi di organizzazione… è questo il mio sogno, il
mio progetto.
Che messaggio vuoi
lasciare ai giovani italiani? |
Io
credo che ogni giovane italiano che visita questa
pagina è un “sognatore”. Cioè un giovane non
“comune” – perché sembra che ormai la grande
maggioranza ha perso la capacità di sognare
giustizia, pace, fraternità per tutti.
Invece ci rendiamo conto che la
nostra presenza nella società, nella Chiesa, in ogni
contesto è come una domanda, forse senza risposta, ma
che comunque non lascia in pace la coscienza di tutti
coloro che dormono o non vogliono vedere. E’ questa
la presenza del Signore che apre gli occhi ai ciechi,
che fa parlare i muti, che fa ascoltare i sordi…
tramite le diverse iniziative di organizzazione, di
manifestazione… Io credo che ogni giovane
italiano che visita questa pagina è un sogno in
azione, e diventa un pericolo per il sistema che ha
bisogno di cuori e menti vuote, spiriti spenti
di sogni e d’umanità per poter mantenersi in
piedi.
Vorrei dire a questo giovane di non smettere di
sognare, perché soltanto i morti non sognano. Il
nostro mondo è pieno di morti che camminano, mentre
un mondo di giustizia e di pace soltanto è possibile
se ci sono persone vive nel mondo. Noi vogliamo
un mondo dove trionfi la vita, non la morte, ma per
questo è necessario sognare, svegli e camminando.
Il mondo, i poveri, hanno bisogno di sognatori. Certo: un sognatore
diventa pericolo per alcuni, ma speranza per molti,
perché la sua presenza è fonte d’alternative.
Per favore, non lasciare di sognare, per il bene
di tutti.
Io credo che soltanto questo vuole Dio. Vale la
pena sognare.
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