LE
GUERRE IN AFRICA
VISTE
DALLA PARTE DELLE VITTIME
Una
guerra si può sempre percepire diversamente. Tutto dipende
da quale parte si sta o dal punto di vista da cui si parte.
Quando c’è la guerra:
-
Alcune
persone partendo dal punto di vista del profitto pensano
con gioia all’ammontare delle loro ricchezze: la
guerra offre loro la possibilità di vendere le loro
armi che sono fatte soltanto per uccidere, o la
possibilità di sfruttare il petrolio, i diamanti,
l’oro, il coltan, ecc. dei territori in guerra per
farsi una ricchezza acquisita versando il sangue umane.
-
Altre
persone, essendo dalla parte delle vittime, pensano,
anche con gioia, alla possibilità di liberarsi di una
oppressione, di una dittatura: queste persone pensano
che tutti i mezzi, particolarmente la guerra, sono
permissibili per raggiungere il fine della liberazione
da un’oppressione o una dittatura. Purtroppo la storia
ci ha insegnato che tutte le cosiddette liberazioni
acquistate versando il sangue non hanno mai procurato la
vera liberazione che promettevano, ma una volta al
potere, questi movimenti rivoluzionari si trasformarono
in nuovi poteri di oppressioni.
-
Altri
ancora partono dal punto di vista dei calcoli politici
col desiderio di arrivare al potere a tutti i costi e
vedono nella guerra una grande possibilità di arrivare
dove, democraticamente, loro non arriverebbero mai,
perché a loro non importa del popolo, sono soltanto
interessati dal potere.
-
Altri
ancora partono dal presupposto che la guerra non si può
mai fermare, così pensano ad organizzare gli aiuto ai
profughi e alle vittime cominciando a raccogliere soldi
e mezzi per l’aiuto durante e dopo la guerra, al posto
di cercare innanzitutto a fermarla.
-
Io
personalmente quando penso a qualsiasi guerra, e
particolarmente quella del Congo, mi viene sempre in
mente una vicenda con una signora anziana della mia
parrocchia a Kisangani in Congo, vittima al cento per
cento della guerra, che viveva solo degli aiuti della
Caritas parrocchiale. Lei mi raccontava la sua memoria
della guerra degli anni sessanta nel Congo in cui lei
perse tutta la sua famiglia. Quando mi raccontò la sua
memoria della guerra, lei era molto ammalata e aspettava
la morte. Lei mi chiamò per confessarsi e ricevere
l’eucaristia. Alla fine della confessione mi parlò
della sua esperienza di vita e particolarmente di tutto
ciò che la guerra degli anni sessanta in Congo aveva
lasciato come impressione nella sua memoria. Vorrei
riassumervi la testimonianza di questa signora Maria, di
come vedere le guerre africane dalla parte delle
vittime. “ Figliolo
mio, mi disse questa verso la fine del racconto
della sua storia,
vorrei chiederti una cosa. Ti prego, se tu accetti, di
parlarne spesso alla nostra gente, che non ha ancora
capito cos’è la guerra, e forse non la capirà mai.
Che non ha capito cos’è la vita e la morte, e forse
non le capirà mai .Io alla fine della mia vita terrena,
ho capito cos’è la guerra, cos’è la vita, cos’è
la morte. Quello che ho capito della guerra te lo lascio
come tutto ciò che una madre lascia ai suoi figli prima
di morire. La guerra mi ha tolto tutto ciò che Dio mi
aveva dato: ero ricca di figli e figlie e la guerra li
ha portati con sé e adesso sono da sola. Dalla guerra
degli anni sessanta nel nostro paese fino adesso non ho
più nessuno della mia famiglia. Senza la Caritas
parrocchiale sarei morta fisicamente anni fa. Due dei
miei Figli si sono fatti soldati, uno era con i ribelli
e l’atro con il governo. Durante la guerra loro si
sono incontrati faccia a faccia. Non riconoscendosi più
come fratelli a causa della guerra il più grande fu
ucciso dal piccolo che al suo torno fu anche ucciso da
un vicino che era amico del più grande. Così la guerra
non ha soltanto diviso la mia famiglia, ma l’ha
uccisa. Mia figlia, dopo che dieci soldati l’avevano
violentata, la uccisero. I miei fratelli e sorelle sono
fuggiti non so dove, e da quel tempo non ho sentito più
niente di loro. Sono sicura che anche loro sono stati
uccisi. E la mia famiglia era la mia ricchezza. Avevo un
terreno che coltivavo come contadina e che mi dava il
necessario per vivere, fuggendo la guerra ho dovuta
lasciare la mia terra, per vivere come mendicante in
questa città di Kisangani. Ero una persona dignitosa,
ma la guerra mi ha fatto diventare una cosa, un oggetto,
un niente(…). Figliolo mio, la guerra non è niente
altro che la morte. Io non morirò domani, o dopo
domani, o in una settimana a causa della malattia che
ho. Sono gia morta quando la guerra ha diviso e ucciso
la mia famiglia. Da quel tempo vivo soltanto
fisicamente, perché il mio cuore di madre, di persona
umana è stato ucciso con la mia famiglia. La morte che
mi aspetta adesso, non è una morte, è piuttosto il
passaggio verso la vita, verso la pace di Gesù. Aspetto
con gioia il momento che il Signore mi chiamerà a
vivere per sempre nella pace, nell’amore. Tutti coloro
che hanno vissuto la guerra come me sono “morti –
viventi”. La guerra cambia così persone vive in
persone che vivono con un cuore morto. E che cos’è
una persona senza il suo cuore che è sede dell’amore,
della vita? Figliolo mio, promettimi di proclamare alla
nostra gente, che la guerra non è buona, che la guerra
è la morte, che la guerra non può essere giusta, che
la guerra uccide l’amore, che la guerra uccide la
famiglia, che la guerra trasforma le persone in cose, in
oggetti, che la guerra è una
malattia che uccide, non solo i corpi di quelli
che sono in essa caduti, ma soprattutto i cuori di
quelli che sono sopravissuti. Il mondo cerca di curare
tutte le malattie fisiche come la malaria e l’aids, ma
la malattia più pericolosa che si chiama “guerra”
quasi nessuno se ne prende cura. Al contrario, ho
sentito che si produce di più cose che si chiamano
Fucile, Bomba per diffondere questa cattiva malattia in
tutto il mondo. Figliolo mio, va, parla e scrivi contro
la guerra.” Dopo tre giorni questa anziana morì.
Allora quando sento parlare di guerra, mi ricordo di
lei, mia madre e maestra nella lotta contro le guerre.
L’unico
modo, secondo me, per togliere alla guerra tutte le sue
possibili giustificazioni è di mettersi dalla parte delle
vittime di tutte le guerre. Vedere la guerra come la vedono
le vittime è l’unico modo che può dimostrare la
stoltezza della guerra. Vorrei lasciare parlare le vittime
sperando che voi le ascoltiate. Qualche mese fa mi è giunta
una lucidissima analisi con previsioni paurose di amici
della società civile di Butembo che vivono quotidianamente
nelle stesse condizioni imposte dalla situazione, a fianco
della popolazione delle vittime della guerra in Congo:
"La
nostra è la voce di circa duecentomila persone che non
sanno più come sopravvivere in questa terra del Nord Kivu.
Duecentomila vite ugualmente importanti come quella di
"Un bianco" che viene ucciso in Zimbabwe, in Irak.
Sulle nostre terre oggi noi vediamo:
-
migliaia
di rwandesi, militari e milizie, che hanno abbandonato
il Rwanda da sei anni, i cosiddetti "interahamwe"
senza terra, ignorati, stranamente ben armati;
-
migliaia
di persone, di origine rwandese, ma da molto tempo
residenti in Congo, oggi confusi con gli interahamwe e
perseguitati dall'esercito Tutsi, anche se non hanno
avuto alcun legame con il genocidio del Rwanda;
-
centinaia
(o migliaia?) di Mayi Mayi e altri gruppi simili, oggi
con lo scopo, vago, di scacciare gli Ugandesi e i Tutsi
"invasori";
-
innumerevoli
bande di ladri e banditi... nati in questo caos...
Una
cosa li accomuna tutti: ruberie, angherie, uccisioni,
distruzioni a svantaggio della popolazione! Quasi ogni
giorno o notte, attaccano i villaggi: non sappiamo più di
chi si tratti. La nostra gente non può più coltivare, e
sovente deve dormire (?) sotto gli alberi.
L’esercito - ugandese e congolese - che è presente
in alcuni centri lungo la grande strada Butembo-Kanyabayonga
sembra assistere passivamente a questo sfacelo.
COSA
STA ACCADENDO?
Noi
constatiamo che: la paura aumenta ogni giorno, e con la
paura aumentano il sospetto, il rifiuto, l'odio per l'altro.
L'altro che è: il rwandese, l'ugandese, colui che non è
della mia etnia, colui che non è del mio villaggio. Questo
sospetto, questo "rifiuto dell'altro", in alcuni
casi arriva anche sulla bocca della gente di chiesa. E nella
nostra regione, giustamente considerata molto accogliente,
è entrato lo spirito tribale. E' una tragedia! Noi crediamo
che tutto ciò non sia affatto frutto del caso o di cattiva
sorte... Noi
sappiamo che è "pensato-voluto-pianificato"
poiché l'abbiamo già visto in Sudan e a Timor Est, in
Rwanda e in Burundi, in Jugoslavia... Kosovo, a Kinshasa e a
Bunia. Anche qui da noi, tra qualche mese sarà sufficiente
che si metta tra LE MANI DELLA GENTE SEMPLICE del villaggio
un fucile o un machete, perché "si difenda"... e
il gioco sarà fatto! Alle radio parleranno di "conflitti
tribali" africani. Anche noi lo vediamo questo
piano:
”oggi, il sospetto,
il rifiuto dell'altro...provocato,
tra qualche mese un "regalo" di armi
affinché possiamo difenderci
anche noi faremo il nostro piccolo genocidio la
grande stampa internazionale gli interventi umanitari
passeranno due anni e poi si prenderà coscienza degli
errori commessi finalmente... la richiesta di perdono.”
Noi non vogliamo fucili per difenderci, noi non vogliamo che
nessun fratello -nessuno- sia privato di un pezzo di terra,
di una casa per vivere, in nome di un nazionalismo creato
dagli altri sulla carta.
Noi non vogliamo neppure delle collette internazionali
quando il disastro sarà già fatto.
Noi vogliamo che la gente di buona volontà, le piccole e le
grandi comunità cristiane che si trovano ovunque nel mondo,
GRIDINO INSIEME A NOI, mentre c'è ancora tempo, contro
questi silenzi e non-interventi che generano i genocidi.
Contro queste manipolazioni sulla gente innocente, contro
questi piani diabolici.”
LA
RESISTENZA NON-VIOLENTA
DEL
POPOLO CONGOLESE
Analizzando
personalmente le due guerre del Congo, la prima da Novembre
1996 a Maggio 1997 che è quella che ha portato Laurent
Kabila al potere e la seconda dal 2 Agosto 1998 ad oggi, mi
sono reso conto che la posizione della popolazione è stata
capitale.
Nella
prima guerra, il popolo sfiancato dalla dittatura di
Mobutu, stanco dell’oppressione, di una vita povera su una
terra ricca e dei saccheggi dei militari di Mobutu ha
accolto ingenuamente l’aggressione Rwando-ugandese con la
ribellione di Kabila come il male necessario per liberarsi
dalla dittatura. Questo fatto che il popolo si mise dalla
parte di Kabila e i suoi aiutanti rwandesi e ugandesi ha
permesso che dopo soltanto sette mesi il potere di Mobutu
crollasse. Secondo me, Kabila è arrivato al potere non
perché i Rwandesi e gli Ugandesi avevano un esercito così
imponente, così forte che l’esercito di Mobutu non
potesse nulla davanti a loro, ma perché il popolo aveva
rimesso le sue aspirazioni alla democrazia, alla libertà,
allo sviluppo e la sua speranza di un Congo nuovo secondo le
decisioni della conferenza nazionale sovrana nella
ribellione di Kabila.
Nella
seconda guerra invece si è manifestato il contrario.
Dall’inizio di questa guerra il popolo nella sua unanimità
era contrario. E io penso che se oggi nessun gruppo dei
ribelli non è arrivato a Kinshasa, se oggi il Congo non si
è diviso in piccoli Paesi, come accade in Yugoslavia, se
oggi tutti i ribelli stanno dividendo il potere di
transizione a Kinshasa, è perché il popolo congolese ha
vinto nella sua resistenza, anche se questa resistenza ha
costato la vita a più di quattro milioni di congolesi. Se
la guerra sta andando alla fine in Congo non è per il
merito, né di Joseph Kabila con la sua grande apertura, né
del Sudafrica che ha speso tanti soldi per portare i
belligeranti ad un accordo, né della MONUC che fino ad oggi
non ha fatto niente altro per i congolesi che osservarli
morire, né della comunità internazionale che non ha mai
sentito il grido del sangue delle vittime congolesi, né dei
Mai-Mai i gruppi della resistenza armata e violenta contro
l’aggressione, la guerra sta finendo per il merito della
resistenza non-violenta delle popolazioni congolesi. Vorrei
illustrare la mia posizione con esempi concreti che
presentano questa resistenza dall’inizio della guerra fino
ad oggi:
1)
Il rifiuto dei genitori di mandare i loro figli
alle scuole all’inizio della seconda guerra: le
autorità dell’unica ribellione all’inizio della guerra
avevano decretato l’apertura della scuola per il 21
settembre e il 5 ottobre 1998 nelle regione del Kivu che la
nuova ribellione già controllava. Malgrado la campagna di
sensibilizzazione e le minacce, i genitori non mandarono i
figli a scuola. Un comitato dei genitori scrisse una lettera
aperta con queste parole: “La
vostra guerra vuole ridurci per sempre nella miseria. Voi
sapete che non possiamo da anni fare le spese scolastiche e
pagare gli insegnanti e ci chiedete di mandare i nostri
figli a scuola senza proporci una soluzione a questo nostro
problema. E poi, voi non ci date fiducia per la sicurezza
dei nostri figli nelle scuole, perché alcune delle vostre
iniziative e parole ci fanno temere il reclutamento forzato
dei nostri figli. Infatti noi vediamo i vostri capi
circondati da bambini-soldato venuti dal Rwanda e
dal’Uganda con l’età della scuola elementare. Noi
rifiutiamo la vostra guerra…”
2)
La lettere di Natale del 1999 del arcivescovo di
Bukavu Emmanuel Kataliko: quella lettera svegliò la
forza di resistenza della popolazione di Bukavu. Vi cito
alcuni parole di quella lettera che considero profetica: “Oggi
come nel passato, siamo chiamati a riscoprire la nostra
dignità di uomini liberi. La nostra vita quotidiana e'
lontana dalla gioia e dalla libertà. Siamo schiacciati
dall'oppressione della dominazione. Forze estranee con
l'aiuto di alcuni nostri fratelli congolesi, organizzano
guerre utilizzando le risorse del nostro paese. Risorse che
dovrebbero essere utilizzate per il nostro sviluppo, per
l'educazione dei nostri figli, per guarire i nostri malati,
in pratica per permetterci di vivere più umanamente,
vengono utilizzate per ucciderci. Inoltre il nostro paese e
noi stessi siamo divenuti oggetto di sfruttamento. Preti,
religiosi e religiose sono stati rapiti, torturati e anche
uccisi poiché, con il loro modo di vivere, denunciavano
apertamente l'ingiustizia nella quale e' piombato il nostro
popolo, condannando la guerra ed esaltando la
riconciliazione, il perdono, la non-violenza. Inutile dire
che, per quanto ci consta, fino adesso non e' stata condotta
nessuna inchiesta seria per trovare i colpevoli e punirli.
La decadenza morale ha raggiunto un livello così aberrante
in alcuni nostri compatrioti che, addirittura, non esitano a
consegnare il loro fratello per un biglietto da dieci o da
venti dollari. Noi ci impegniamo con coraggio, con uno
spirito fermo, con una fede incrollabile, ad essere dalla
parte degli oppressi e, se necessario, fino al sangue, come
hanno già fatto Monsignor MUNZIHIRWA, Padre Claude BUHENDWA,
il sacerdote e le suore di Kasika, Padre Georges KAKUJA...e
tanti altri cristiani. IL VANGELO CI SPINGE A RIFIUTARE LA
VIA DELLE ARMI E DELLA VIOLENZA PER USCIRE DAI CONFLITTI. E'
AL PREZZO DELLE NOSTRE SOFFERENZE E DELLE NOSTRE PREGHIERE
CHE NOI CONDURREMO LA LOTTA DELLA LIBERTA', CHE CONDURREMO
ANCHE I NOSTRI OPPRESSORI ALLA RAGIONE E ALLA LIBERTA'
INTERIORE.” Queste parole sono state travisate in mala
fede e gli sono costate il tormento dell'allontanamento
dalla sua diocesi, con la quale aveva un rapporto di grande
fraternità; ma, al tempo stesso, sono state un dono tale di
energia per gli affamati di giustizia e un sostegno nella
resistenza che la popolazione di Bukavu rispose all’esilio
forzato del suo pastore con “lo sciopero dell’eucaristia
dominicale”. Nessuna chiesa, né cattolica, né
protestante, celebrò l’eucaristia dominicale per un mese.
Davanti a tutte le chiese c’era scritto in grande
“MUTURUDISHIE MCHUNGAJI WETU” (
riportateci il nostro pastore). A questo seguirono
due mesi di sciopero delle scuole, delle attività sociali.
Si organizzava delle giornate “VILLE MORTE” (città
morta) in cui la vita della città era completamente
paralizzata.
3)
La maratone per la pace a Kisangani il 14 aprile
2002: la corsa di 10 Km per gli uomini e 5 Km per le
donne che fu organizzata per sensibilizzare la popolazione
di Kisangani per il SIPA2, divenne una prova di forza della
resistenza della popolazione di Kisangani, città martire
nella guerra di aggressione. Più di 50 mille persone si
misero a correre per chiedere la pace. Bambini, ragazzi e
ragazze, uomini e donne, anche anziani erano
all’appuntamento. La radio della diocesi fece
l’intervista a tutte le categorie delle persone venute
alla maratone. Una ragazza di 17 anni rispose alla domanda
“perché lei era venuta a correre?”: “Voglio
correre per il mio fratellino ucciso dai rwandesi e gli
ugandesi nella guerra di 6 giorni. Per mio fratellino sono
qua per dire ai rwandesi, che sono ancora in questa città,
che sene devono andare. Loro ci hanno portato la guerra e la
morte, ma noi vogliamo la pace e la vita.” La stessa
domanda fu rivolta ad un anziano di più o meno 60 anni che
rispose: “Io sono ormai un vecchietto che ha vissuto tutte le tragedie di questa
città che è stata sempre la città martire in tutte le
guerre del Congo. A Kisangani sono sempre morti civili in
tutte le guerre, allora io sono venuto non a correre, perché
con la mia età non ce la faccio, ma a camminare per la
pace. Vorrei dire quella gente che ci ha portato questa
guerra, che noi non la vogliamo. Noi siamo per la pace e per
un Congo unito.” Da quella maratone le autorità
ribelli capirono che lasciare organizzare SIPA2 à Kisangani
con un numéro importante di partecipanti stranieri, nella
maggioranza italiani, sarebbe stato fatale per loro, perché
la comunità internazionale avrebbe preso conoscenza dei
massacri fatti da loro a Kisangani. Così il 13 maggio
organizzarono un finta ammutinamento, una finzione per fare
saltare l’organizzazione del SIPA2 con la ragione
dell’insicurezza nella città a causa dell’ammutinamento
di alcuni militari. Ma l’ammutinamento non funzionò come
era pensato, perché i giovani dei quartieri periferici,
chiamati alla radio dai militari a cacciare via della città
i rwandesi, uccisero due rwandesi, e uno dei due era
l’uomo d’affari del presidente rwandese Paul Kagame. In
meno di un’ora gli appelli cambiarono e sul banco degli
accusati furono portate la chiesa cattolica e le
organizzazioni della società civile. Un giornalista parlava
così nella radio: “La
chiesa cattolica e quelli che si dicono leader della società
civili non sono contenti della pace che regna a Kisangani
dalla fine della guerra di 6 giorni. Vi hanno ingannato
quando parlavano e organizzavano la
maratone per la pace e il Simposio Internazionale per
la Pace in Africa. Tutto questo era bugie. Parlavano della
pace quando nel segreto con l’aiuto di alcuni militari
preparavano ciò che è successo stamattina: un colpo di
stato contro l’autorità di questa città…Ma noi abbiamo
gia tutto sotto controllo. Non ci lasceremo ingannare…”
Da questo discorso seguirono il massacro di più di
200 civili e non si sa di quanti militari e poliziotti, che
avevano accolto con gioia l’ammutinamento. E il SIPA2 fu
annullato. Ancora una volta Kisangani nella resistenza si
mise a piangere i suoi martiri, senza che la comunità
internazionale se ne accorse.
4)
La marcia della popolazione di Butembo l’11
giugno 2003 che ha contribuito a fermare l’esercito del
RCD/Goma nella sua salita verso Butembo e Beni nel scorso
giugno: Nel mese di giugno l’esercito della ribellione
di RDC/Goma, quando si preparava a Kinshasa il nuovo governo
di transizione con tutti i gruppi ribelli e contro tutti gli
accordi di pace firmati da tutti i movimenti ribelli, iniziò
una nuova guerra nelle località controllate da un altro
movimento ribelle alleato al governo di Kabila. Dopo una
settimana i militari del RCD/Goma erano a Lubero, una città
situata a più o meno 30 Km da Butembo. Al posto di agire
nella logica del “sauve qui peut” (si salvi chi può), perché si era quasi sicuro
che tra due o tre giorni anche Butembo sarebbe caduto nelle
mani del RCD/Goma, tutta la popolazione di Butembo si sollevò
come un solo uomo per manifestare nelle strade contro la
guerra del RCD/Goma e lasciò scoppiare la sua rabbia contro
gli uffici della MONUC a Butembo. Allora si svegliò la
MONUC e il capo della MONUC cominciò urgentemente le
trattative per il cessate il fuoco.
Ci
sono tanti altri esempi della resistenza non violenta della
popolazione congolese durante la guerra di aggressione. Se
domani ci sarà la pace nel Congo, spero che noi congolesi e
il mondo intero non dimenticheremo mai questa memoria della
resistenza del nostro popolo e il sangue di più di 4
milioni di congolesi morti innocentemente resistendo e
gridando senza essere ascoltati che la comunità
internazionale li aiutasse nella difesa della loro libertà
e della loro terra con la non violenza.
Concludo
con questo poema di Georges Ombinda, un poeta congolese:
“Aspra
è la lotta
Lunga
la notte
Corta
l’agonia
La
morte rinviata.
Domani,
domani
Il
sole sorgerà sul Natal
Riscalderà
i corpi intorpiditi
Dei
popoli Zulù, Ndasa, Ottentotti e Boscimani.
Domani,
domani,
Al
primo sorriso del sole nero
La
notte scarlatta lascerà il posto
Alla
luce arancione dell’Aurora.”
P.
Joseph Mumbere Musanga, mccj. |
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