In questa pagina abbiamo raccolto
alcuni testi di Arturo Paoli trovati nella rete e che speriamo
possano aiutare ad avvicinarsi e a conoscere meglio questo uomo
coraggioso che ha scelto di vivere da povero tra gli impoveriti
dell'America Latina.
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La mia identità l'hanno
formata i poveri: intervista ad
Arturo Paoli di Patrizia Caiffa
"Giustizia" e
"amore per i poveri" sono le parole che
ricorrono più frequentemente nel parlare pacato e
sereno di fratel Arturo Paoli, 88 anni di vita
sperimentata nella sua essenza più profonda, sublimata
nella relazione con Dio e con i poveri. Lo scorso anno
è stato proclamato dallo Stato d'Israele "Giusto
fra le Nazioni" per il suo impegno a difesa degli
ebrei durante la seconda guerra mondiale.
Il terzo segreto di Fatima.
Cosa pensare? "La Chiesa cattolica ha sempre
dimostrato, nei secoli, grandissima dignità e distacco
nel giudicare le rivelazioni personali. Anche nei
processi dei santi non le ha disprezzate ma non le ha
nemmeno prese molto in considerazione, dando quel
suggello di verità e autenticità che si dà invece
alle verità rivelate. Al contrario la solennità che ha
circondato la promulgazione dei segreti di Fatima ha
dato l'immagine di una cosa seria, come fosse la
Santissima Trinità. Si è andati oltre il livello in
cui sono sempre state le rivelazioni private, che erano
sì rispettate ma non considerate una promulgazione di
fede davanti alla gente. Questo, secondo me, ha prodotto
un effetto negativo sul pubblico: c'è in giro una
specie di fede molto basata sul miracolo, sulle
guarigioni attribuite a Santi o a persone speciali -
quando invece il Vangelo parla con sobrietà e distacco
dei miracoli di Gesù, che lui produceva per manifestare
la presenza del Padre - con una carica emozionale
intorno alla fede cattolica che non aiuta il suo
progresso né la manifestazione del vero senso della
fede, ossia quello di trasformare la società umana. Mi
pare invece sia rimasta molto nell'ombra una delle più
importanti indicazioni del Concilio Vaticano II secondo
la quale il centro della predicazione di Gesù è il
regno di Dio e la preoccupazione per la giustizia, la
difesa dei vinti, degli oppressi. Questa dovrebbe essere
predominante. Invece tutto si riduce a qualcosa di molto
simile alla superstizione. E la gente che osserva dal di
fuori la fede non la vede importante per la vita, non
trova in essa il senso del vivere. Eventi come la
rivelazione del terzo segreto di Fatima sono colpi di
scena che attraggono l'attenzione sulla Chiesa, il
Pontefice, utilizzando il metodo di questa società.
Come con la pubblicità si cerca di attirare
l'attenzione dei prodotti, anche la Chiesa usa lo stesso
metodo. E' come una specie di febbre che porta a cercare
sempre qualche idea nuova per mantenere viva
l'attenzione sulla Chiesa. E io credo che questo
dispiaccia molto alle persone che amano la Chiesa. E
quando la Chiesa istituzione non lancia ponti ma si
ritira, la sola possibilità che rimane è il dissenso.
Perdendo in questo modo la possibilità di una critica
costruttiva, di un contributo di pensiero che potrebbe
dare il mondo laico...".
E della Chiesa di oggi?
"La scelta odierna della
Chiesa è dal punto di vista strettamente spiritualista
e della classe borghese. La spiritualità ufficiale che
viene predicata, favorita, alimentata non è né per gli
intellettuali, né per il popolo. E' per la classe
borghese, la classe ricca, statica, quella che non si
vuol muovere, quella che in fondo sente che la Chiesa
deve essere al suo servizio, che anche Dio deve essere
al suo servizio. Non c'è più un messaggio serio capace
di essere capito dagli intellettuali e dal popolo.
L'intellettuale non aspetta una spiegazione razionale ma
la visione di una fede che abbia una efficacia storica
sulla trasformazione del mondo. Il popolo aspetta la
giustizia, la difesa dei suoi diritti, la solidarietà.
Ma non c'è né l'uno né l'altro. C'è una cosa di
mezzo che soddisfa la festa, il fasto, il bisogno di
colori, di immagini, di esultanze, di trionfi. Tutto a
misura di una classe borghese che non assume mai la
realtà, la povertà della realtà, la sfida e le
sofferenze della realtà, per vivere nelle novelle della
televisione...dove entra anche la preghiera, la festa
religiosa, ma tutto viene appiattito".
Ma se la Chiesa è ispirata dallo Spirito Santo e il
Papa è il rappresentante di Cristo in terra... perché
tutto ciò?
"Nella Bibbia il popolo d'Israele è stato scelto
da Dio per essere il popolo testimone, quello che
presenta al mondo il Dio vero. Eppure il popolo di Dio
è pieno di prevaricazioni, di abbandoni, di tradimenti,
di esitazioni... Il nuovo popolo di Dio presenta le
stesse esitazioni, debolezze umane, fragilità, momenti
di oscurità... Perché nella Bibbia si parla sempre
dell'Alleanza che si rinnova? Di un Dio che ritorna di
continuo? Perché c'è sempre questo tradimento o
cedimento del popolo che non è all'altezza della
missione che Dio gli ha affidato. Eppure Dio continua
con la sua fedeltà. Questo è il grande mistero, che
poi ognuno vive nella sua vita privata, quando ci
chiediamo come sia possibile che Dio continui ad amare
una persona indegna come me... Quando si vive questo
nella propria esperienza personale non è strano veder
succedere questo a livello macroscopico".
Parlaci della tua esperienza di
fede...
"Durante l'esperienza
della vita di fede ci viene tolta sempre più
gradualmente la nostra iniziativa: nella relazione con
Dio noi siamo totalmente passivi. Come posso io chiedere
a Dio di ascoltarmi, di occuparsi di me? Non si può,
Dio è sempre più in là. Però penso che Dio, vedendo
la nostra debolezza, la nostra struttura umana, si lascia invocare,
supplicare, accetta una relazione che è fatta più
dall'uomo che da Lui. Dio accetta la rozzezza di questa
relazione, prende sempre più posto dentro di te, ti fa
rinunciare ai tuoi desideri personali, alle tue
iniziative, ai tuoi sogni, ai tuoi progetti. E senti che
tutto ciò che ti aiutava ad avere una relazione con Lui
non ha più senso, perché Lui ti occupa completamente.
Io ho cercato di essere sempre fedele a ciò che ci
prescriveva la Chiesa nella preghiera, nella meditazione
mattutina, ecc. Ora non potrei più perché dedico molto
più tempo di quello che dedicavo nel passato a Dio. Ma
è più ascolto che Parola. L'ascolto è nel deserto,
non si ha più bisogno di ricorrere a santi, letture,
parole o a un libro o alla spiritualità. L'ascolto ti
blocca lì dove sei e ascolti senza sapere veramente
cosa. Ma senti che ascolti. Ti apri. Se dovessi dire
quali sono le parole della mia preghiera sarebbero:
'vieni' ed 'eccomi'".
Come fare per arrivare ad un ascolto così vero?
"Non saprei dirtelo. Forse Dio ha cercato di vedere
nel mondo chi è il più bisognoso, come succede nelle
famiglie dove si corre verso il figlio più debole.
Forse Dio si è diretto verso di me per questo. Ho
cercato di essere vero, di essere sincero. Siccome Lui
abita tra i poveri - e di questo non ho alcun dubbio -
forse mi ha visto aggirare tra i poveri e si è chiesto
'Chi è questo qui che visita le famiglie, che abbraccia
il lebbroso? Facciamogli fare una particina nel
mondo...' Mi ha scoperto tra i poveri perché lì sono
andato con amore umano. I poveri ti provocano amore.
Tutto quello che ho e che sono lo devo a loro,
altrimenti sarei stato uno speculatore, uno di quei
freddi teorici... Ma vista dalla parte dei poveri la
Chiesa a volte fa soffrire molto. E' vero che il Papa ha
mangiato con i barboni - e io sono sicuro che il Papa
personalmente ama i poveri - però tutte le decisioni,
tutte le scelte, sono contro i poveri, non tengono
assolutamente conto delle loro esigenze, dei loro
diritti. Nelle encicliche e nei discorsi sì, ma nelle
decisioni pratiche, nell'esercizio della Chiesa, i
poveri non hanno voce, non contano nulla. E dove non entra il povero Dio non entra.
Possono dire quel che vogliono, possono fare statue
d'oro, ma Dio non entra mai dalla porta dove non entra
il povero".
Ma prima o poi si realizzerà una Chiesa dei poveri?
"Forse si realizzerà quando subentrerà una grande
crisi, una débâcle come l'invasione dell'islam o
qualcosa del genere. Questo perché gli eccessi di
trionfalismo provocano sempre, quasi come un fenomeno
storico, delle reazioni di rivolta".
Quali consigli dare ad un "cristiano
qualunque" che voglia assumere pienamente la causa
dei poveri?
"I poveri sono dovunque. Gesù ha detto 'i poveri
li avrete sempre con voi'. Purtroppo la storia è sempre
una relazione tra vinti e vincitori, tra schiavo e
padrone. Bisogna mettersi dalla parte dello schiavo e
dell'oppresso, anche politicamente. Un parroco deve
guardare alla sua chiesa non dalla parte delle pie
signore che lo circondano ma dalla parte dei
poveri".
Eppure spesso ci si occupa dei deboli sono per fare
bella figura, per assistenzialismo...
"Certo, e lì è il punto dolente. Non bisogna fare
elemosina ai poveri ma fare in modo che formino la
nostra identità. Loro me l'hanno formata. Io non vivo
come loro, vivo umilmente ma mangio due volte al giorno,
mi vesto, viaggio, ma la mia identità è in mano loro.
Per descrivere questo Lévinas usa l'idea dell'ostaggio.
Sembra un'idea astratta eppure è una realtà. I poveri
danno tanto amore, fiducia, speranza, gioia, che non si
trova negli altri ambienti. Lì ho trovato veramente
Dio".
Si realizzerà un giorno un
mondo in cui non ci saranno più poveri?
"Forse non ci saranno più miserabili
economicamente, ma gli oppressi ci saranno sempre. La
donna sarà sempre oppressa. Nella relazione uomo-donna
la donna sarà sempre in una situazione di svantaggio
per la sua stessa natura, l'essere legata così
fortemente alla natura, che è la sua grandezza e la sua
limitazione. L'uomo ha sempre l'impressione, anche
fisicamente, di essere quello che guarda la natura dal
di fuori, con la grande tentazione di usarla, di
dominarla.
E la donna, anche se non lo
vuole, è sempre legata alla natura. Non dovrebbe
esserlo ma è dalla parte dell'oppresso perché l'uomo
vede sempre la natura come qualcosa che l'attrae e che
lui deve dominare. La relazione è invece lasciarsi
attrarre non per dominare ma per mettersi in una
posizione di umiltà, di gratitudine, dicendo all'altro
'tu mi dai la vita' non solo fisica ma anche
spirituale..."
Perché la Chiesa è tanto
impacciata sui temi che riguardano la morale sessuale?
"La Chiesa ha paura perché
ha l'idolo del celibato, e non si preoccupa di come i
preti vivono la sessualità. Ora un po' meno con le
scienze attuali, ma prima la sessualità non esisteva e
la repressione si manifestava con odio verso la donna.
Fortunatamente la mia vita è stata un po' speciale. Io
ho vissuto da laico fino a 25 anni, sempre in scuole
miste, avevo numerose amicizie tra le ragazze. Queste
esperienze sono state molto utili perché rompono quel
mistero che si crea intorno alla figura femminile. Io ho
sempre cercato l'amicizia con la donna, che per me è
necessaria. E' diverso un amico uomo da un'amica donna,
ti dà quello che l'altro non ti può dare".
Prima del Brasile dei poveri
hai vissuto molto tempo nel deserto. Cosa ti ha dato
questa esperienza?
"La vita contemplativa ti
libera completamente dalla moralità. Non per dire 'fai
quel che vuoi' ma perché ti mette in una sfera di
libertà diversa. Un esempio: a 18 anni ho conosciuto
Giorgio La Pira, che era veramente un mistico. Una cosa
mi impressionò molto: lo andai a trovare che era
ammalato e trovai seduta sul letto una ragazza che
conversava con lui con tanta semplicità e purezza. Mi
fece vedere ciò che io inconsapevolmente cercavo e che
forse non avevo raggiunto, la relazione semplice,
affettiva. E' stato un esempio migliore di quanto
potevano darmi preti o altri discorsi: l'idea di una
relazione trasparente. Un altro prete forse si sarebbe
scandalizzato. Io capii subito il valore enorme di
questa libertà. La vita contemplativa ti libera dalla
moralità per metterti in una sfera diversa. La donna
non è più la tentatrice, quella che devi sedurre o
conquistare. E' la tua amica che quando ti apri ti dà
delle ricchezze che tu non hai".
Quali sono le maggiori
difficoltà nel lavorare con i poveri?
"L'impotenza assoluta e
il vedere come siano sempre traditi da tutti. I poveri
servono per esercitare le peggiori qualità dell'uomo:
la furbizia, le dominazioni... come un sadico su un
bambino. E si soffre nel vedere tutto ciò. Prima di
venire in Italia sono andato a visitare dei sacerdoti
dell'Idi (Istituto dermopatico dell'Immacolata) che
hanno costruito un grande laboratorio di analisi in
Brasile. C'era anche un medico tra di noi. Vedendo una
stanza vuota chiese a cosa servisse. I religiosi
dell'Idi hanno risposto che avrebbero messo lì due o
tre letti per accogliere i poveri che venivano da
lontano per fare le analisi. Il medico è andato su
tutte le furie dicendo: 'Non sapete come sono i poveri,
se vengono qui a dormire non se ne vanno più'. Allora
mi chiedo: in città come le nostre, dove corruzioni e
imbrogli sono all'ordine del giorno come si può negare
ad un pover'uomo il diritto di stare alcuni giorni a
dormire in ospedale? Questa cosa mi ferì profondamente.
E' come quando i poveri ti rubano la bombola del gas e
accade la fine del mondo... Anche i poveri hanno la loro
dignità, noi non sappiamo cosa vuol dire passare dei
mesi senza il gas, senza la possibilità di cuocere il
riso. Invece i grandi furti vengono elogiati.
In un mondo così, dove
trovare la speranza?
"Eppure i poveri ce
l'hanno. La depressione non esiste tra i poveri ma tra i
ricchi, tra chi ha la vita assicurata. Ai ricchi non
manca nulla però devono andare dallo psicanalista. I
poveri avrebbero tutte le ragioni per disperarsi eppure
tra loro c'è sempre la speranza, la forza della vita,
l'andare avanti perché il domani sarà migliore".
Cosa diresti ad un
pessimista che pensa sia inutile impegnarsi "tanto
le cose non cambieranno mai"?
"Gli direi: amico mio, io
non so se le cose cambieranno, confido che prima o poi
cambino, quando sarà non lo so. L'importante è che io
oggi mi salvi, e se sono un uomo ingiusto, se non assumo
la lotta per la giustizia, non sono un uomo, mi
distruggo. C'è una forma di egoismo superiore che è
salvare se stessi. Salvare se stesso non a danno degli
altri ma per essere salvezza anche per gli altri".
Quali sono stati finora gli
effetti della globalizzazione, soprattutto nel Sud del
mondo?
"La globalizzazione ha
cancellato tutto con una livella. Non esiste politica,
idea, ma solo l'accumulazione, il denaro. Anche il
Giubileo è entrato nella legge generale. I politici non
sanno più dove è la destra e la sinistra perché non
esiste politica ma solo il maneggio del denaro, per
vedere se la nostra moneta regge. Anche la remissione
del debito estero non serve se non sappiamo chi ne
approfitterà. Il denaro dovrebbe servire per le spese
sociali, quei servizi a cui il popolo ha diritto e che
non può pagare. Se si mandano soldi là
o si condonano ne approfitteranno sempre quelli che sono
ricchi, quelli che dominano".
Il capitalismo sta dando segni di cedimento?
"Il capitalismo deve finire, non c'è dubbio. Deve
finire perché è contro natura. E' come se in una
famiglia entrano due milioni al mese che devono servire
per le spese di mantenimento, la spesa, lo studio, ecc.
Se invece io riservo 300.000 lire per mangiare e il
resto lo investo perché i soldi devono aumentare,
fruttare, si crea una conduzione innaturale della
famiglia. Lo stesso succede nella società. I soldi
vengono distribuiti sempre meno e sempre più
accumulati. Alla fine soffocano, necessariamente".
Il dialogo tra le religioni riuscirà a cambiare
qualcosa nel mondo?
"Intanto viviamo in una società pluralista. O ci
facciamo guerra oppure dobbiamo metterci d'accordo.
Saranno messi in valore quegli aspetti della nostra fede
che possono essere armonizzati nel dialogo. La
responsabilità verso gli altri, la giustizia, questi
linguaggi ci faranno sentire più affini le altre
religioni. MI sentirei più vicino ad un musulmano che
crede in questi valori piuttosto che ad un cattolico che
vive egoisticamente e pensa alla sua fede come salvezza
personale ma non è interessato agli altri. Il
pluralismo non è solo accettazione dell'altro. E' messa
in discussione di quegli elementi comuni nelle diverse
fedi, poi ciascuno sarà ispirato da una fede o
dall'altra. Quindi avranno sempre meno valore i culti in
sé. Tutto questo finirà, deve finire".
Patrizia Caiffa
Nata a Roma nel 1966, lavora come giornalista nel
Servizio di Informazione Religiosa. Si occupa di attività
di volontariato nazionale e internazionale.
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Intervento
di Arturo Paoli sul tema del Perdono
La domanda di perdono
espressa dal Papa, nei giorni scorsi, con il bigliettino
lasciato sul muro del antico tempio di Salomone, è stata
valutata in vari modi. Io penso che quella richiesta,
ripetuta e certamente sofferta, in quanto doveva assumere
una posizione molto personale contro un'opinione diffusa,
rappresenta un senso di colpa che il Pontefice sente dentro
di sé. Questo è certo e, anche se non riusciamo a capirlo,
di sicuro si rivelerà alle generazioni future. Penso cioè
che tale richiesta di perdono, abbia un valore profetico,
intendendo per profezia atti o parole contenenti un valore
nascosto, molte volte non percepito dalla stessa persona che
li compie, ne tanto meno dalla generazione contemporanea che
assiste a tali atti. L'origine del senso di colpa espresso
continuamente dal Papa, credo che debba essere ricercato
dentro la nostra cosiddetta civiltà occidentale, nella
nostra cultura cristiana in quanto il cristianesimo è
certamente il perno culturale dell'Occidente. E' vero che
viviamo in un contesto religioso pluralistico, ed è vero
che altri elementi hanno contribuito alla visione del mondo
prevalente in Occidente, ma non possiamo negare che il
cristianesimo abbia svolto, e stia ancora svolgendo, un
ruolo predominante. Quando parliamo di
riconciliazione, di richiesta di perdono, per evitare di
pronunciare parole che restino nell'aria, prima dobbiamo
porci le seguenti domande:
A chi chiedere perdono?
Quale colpa dobbiamo farci perdonare?
Quali sono le conseguenze di tale riconciliazione (a cui
ci richiama continuamente il Concilio Vaticano II).
Stasera vorrei riflettere su una domanda in particolare: Di
che cosa, noi cristiani, dobbiamo chiedere perdono? E
soprattutto: a chi dobbiamo domandare perdono? E quali sono
le conseguenze di questo nostro desiderio di
riconciliazione?
Credo che le radici delle nostre colpe risiedano nel sistema
economico dell'Occidente, la cosiddetta
"globalizzazione", un progetto centralizzato e
universale. Sappiamo che questo progetto economico uccide
ogni giorno quarantamila persone nel mondo, sappiamo che le
enormi disuguaglianze sociali prodotte sul pianeta da tale
sistema sono la causa principale di tantissimi conflitti
armati. In tutto ciò, come detto, la globalizzazione gioca
un ruolo determinate per varie ragioni: innanzitutto perché
tali guerre si fanno con il "placet"
dell'Occidente cristiano, ma anche perché la
globalizzazione, in quanto imposizione di un unico modello
economico e culturale, sta soffocando l'attività
intellettuale e politica locale, mediante l'affermazione di
un'organizzazione tecnologica così vasta e precisa da non
lasciare spazio alle attività culturali. Questo è un modo
di corrodere e contaminare la stessa mentalità umana: la
tecnologizzazione, cioè l'esigenza di studiare il potere
della tecnica, limita la libertà di pensare, di riflettere
e di immaginare un altro tipo di società.
Vengo da un congresso di "Mani Tese" tenutosi a
Firenze al quale hanno partecipato una quindicina di
economisti di fama internazionale i quali analizzavano non i
successi della nostra società tecnologica e tecnocratica,
ma gli effetti negativi che essa produce nel mondo. Si è
discusso della vendita illegale di armi, della mortalità
infantile nei paesi cosiddetti "in via di
sviluppo", soprattutto del traffico di droga: al
riguardo tutti gli studiosi presenti hanno dovuto ammettere
che il commercio illegale di stupefacenti costituisce una
risorsa di primaria importanza per il sistema economico
occidentale: esso non può farne a meno.
L'esempio più drammatico e vergognoso del '900, che prova
come la cultura occidentale sia fabbrica di morte per
milioni di persone, è la Shoah ebraica. Anche se oggi
Auschwitz è chiuso, lo sterminio in esso continua
quotidianamente nel mondo in forma più subdola e la nostra
cultura è il centro di questo genocidio permanente. Noi
tendiamo a dimenticarlo, però tutto questo esiste. Nei
paesi in via di sviluppo (Sud America, Asia, Africa) in cui
si sta affermando il nostro sistema economico si vede con più
facilità come dietro l'apparenza di vitalità e di
esuberanza della società rappresentata dalla lite
economica, ci sia in realtà la disperazione delle grandi
masse che non condividono la ricchezza di pochi e
soprattutto non hanno neppure la speranza di un futuro
migliore. Se penso al Brasile, paese da cui arrivo, chiunque
arrivi a San Paolo o a Rio de Janeiro riceve un' impressione
di grande sviluppo e vitalità. Ma basta spostarci in
periferia per incontrare le favelas, è sufficiente
aggirarsi per le baracche per accorgersi a quale estremità
di miseria arrivano queste famiglie, fino a che punto è
disperata la loro condizione.
Quello che più mi impressiona è pensare come sia stato
possibile che proprio dall'Europa, culla del più alto
pensiero filosofico della storia dell'umanità ed origine di
tutte le forme di cristianesimo (non solo della confessione
cattolica), sia nato questo progetto di morte, fatale per
milioni di persone. Davanti a questo dato di fatto dobbiamo
fermarci un attimo a riflettere, altrimenti tutte le nostre
meditazioni su perdono e riconciliazione sono inutili perché,
per poterci riconciliare, bisogna avere la consapevolezza di
offendere qualcuno. La nostra cultura, di origine greca, è
caratterizzata da una visione idealistica, cioè dalla
continua tensione a trascendere la realtà: essa ha lasciato
in eredità l'abitudine a pensare in categorie universali,
in forme lontane dall'esperienza vissuta quotidianamente.
Per questo motivo la nostra intellettualità ha sempre
elaborato progetti fuori dalla realtà e poi ha preteso di
calarli nel mondo reale. Anche la Chiesa, ovviamente, è
stata influenzata da questa cultura: quando qualcuno accusa
il Papa di essere uno strenuo difensore del capitalismo,
viene sempre sommerso da una sterminata quantità di
documenti, encicliche, studi, prese di posizione da cui
emerge chiaramente come il Pontefice abbia sempre condannato
le degenerazioni prodotte dal capitalismo. Ma tale
documentazione è sempre un prodotto che cade dal cielo
dell'astrazione e mai dalla pratica. Non si tratta di una
colpa della Chiesa, è la nostra cultura che è fatta così.
L'uomo ha prodotto delle grandi astrazioni, ma, con il
passare del tempo, tali astrazioni gli sono sfuggite di mano
ed hanno cominciato a vivere in maniera autonoma.
Durante il nazismo, l'astrazione culturale era lo
"Stato Etico" che aveva il diritto di sopprimere
la vita dei singoli. Nel mondo contemporaneo, l'astrazione
equivalente è il "Mercato". Esso, da un certo
punto in poi, non si è più concretizzato nella
distribuzione dei beni, ma nell'accumulo di ricchezza a
favore di pochi e provocando la morte di milioni di persone.
Ancora una volta l'astrazione è sfuggita di mano all'uomo.
Gli economisti incontrati recentemente, mi hanno fatto
notare come le borse economiche dei vari paesi possano
incrementare i profitti senza che questo comporti un
parallelo sviluppo della società, anzi più spesso questa
si impoverisce.
Ci chiediamo: ma la nostra religiosità che c'entra con
questi ragionamenti ?
Ebbene queste riflessioni toccano il cuore dell'essere
cristiani. Per motivi culturali siamo portati a pensare che
il credente, per essere tale, debba pregare, esercitare il
culto e, magari, fare l'elemosina. In realtà in tutta la
Bibbia, dall'Antico Testamento in poi, Dio ha sempre detto
che del solo culto non sa che farsene, che essere cristiani
vuol dire "essere assetati di giustizia". Quando
Gesù cacciò i mercanti dal tempio, lo fece perché era
ingiusto che loro si arricchissero in un luogo sacro
lasciando che i fratelli morissero di fame. E' nella
giustizia che bisogna provare il proprio amore, non
nell'esasperazione del culto. L'andare a messa ogni giorno
è inutile se non corrisponde al nostro stile di vita,
evidenzia soltanto uno squilibrio fra la nostra religiosità
formale e l'impegno per la giustizia. Quindi dobbiamo
convertire la nostra religiosità dalla formalità fine a se
stessa alla giustizia. Ed essere giusti vuol dire: sentirsi
direttamente responsabili degli altri.
Leggo senza mai stancarmi il capitolo 4° di Luca nel quale
si dice che quando Gesù ha iniziato la sua opera nel mondo,
non ha aperto una scuola di catechismo o di teologia, ma è
andato a portare la Parola direttamente ai poveri ed agli
afflitti. Questa è etica.
Quale differenza c'è tra la morale e l'etica? La morale è
una imposizione che nasce dall'interno e guida i
comportamenti. L'etica è un comportamento di responsabilità
e di amore verso i fratelli e la natura.
Oggi, noi viviamo in un mondo senza etica, infatti nessuno
va a protestare con un industriale che rovina il mondo con
le sue fabbriche ed attenta così alla vita dei suoi
fratelli. Questo succede perché l'unico valore riconosciuto
è la capacità di produrre ricchezza, il resto è
ininfluente. Siamo perciò arrivanti al punto che
l'Occidente "cristia-nissimo" ha dato al mondo i
Santi ma poi lo ha lasciato in mano al diavolo.
Per questo motivo se noi non cominciamo ad assumerci le
nostre responsabilità, il mondo (inteso come gli altri e
come natura) non ha assolutamente futuro. Per poterci
convertire dobbiamo essere consapevoli che il mondo non è
nostro e non è stato creato per noi. Il vero cristiano deve
obbedire a Dio obbedendo al suo volere che si manifesta nel
mondo, altrimenti io posso cantare mille
"Alleluia" e dire "Dio ti voglio bene",
ma se tradisco il Suo progetto, la mia preghiera è una
bestemmia. Il caos che c'è sulla terra lo abbiamo creato
noi, non Dio: sono gli esseri umani che non hanno seguito il
Suo progetto.
Quando penso alla protervia delle persone che pensano di
poter fare quello che vogliono della natura e della terra,
mi viene sempre in mente un signore che, in Brasile, è
proprietario é proprietario di un appezzamento grande
quanto il Belgio e l'Olanda messi insieme: egli ne può fare
ciò che vuole perché quel terreno è legalmente suo.
Questo è stato possibile perché viviamo in un mondo nel
quale la fame e le altre necessità concrete dell'uomo non
hanno valore. Contano solo i grandi progetti: è così anche
per il Giubileo. Quando si parla di riconciliazione si
omette sempre di affermare che, per riconciliarsi
concretamente, occorre ripartire dalla responsabilità: io
sono responsabile degli altri (degli immigrati che passano
da Pisa, dei barboni che dormono alla stazione, etc.) perché
la mia forma di vivere, la libertà di scegliere ciò che
voglio al supermercato può anche provocare la sofferenza, e
addirittura la morte, di altri esseri umani. Tutto questo
non è un'appendice della nostra fede, ma ne rappresenta la
sostanza.
Penso che in futuro, la possibilità di riconciliarci con le
altri religioni non sia tanto nel trovare identità di
dottrina e di concezioni che sono profondamente diversi, ma
nel rispetto di valori universali su cui tutti dobbiamo
convergere: la responsabilità verso gli altri, la fraternità
e la giustizia. Bisogna incontrarci nella responsabilità
verso il mondo che, poi, non è altro che obbedienza a Dio,
al suo progetto, al suo sogno. In questo senso la Bibbia è
di una chiarezza assoluta: dalla prima all'ultima pagina non
fa altro che dirci che noi siamo ospiti, non siamo i padroni
del pianeta. Poi la Bibbia e il Vangelo sono state involte
in catechismo di settecento pagine, con tutte le conseguenze
che ne derivano: elucubrazioni teologiche, dogmi, regole,
ragionamenti. Ma per dire "ama Dio e ama il tuo
prossimo sinceramente e lealmente ci vogliono settecento
pagine? Per salvare il mondo e l'umanità, e per essere
autenticamente cristiani, è necessario ritrovare la
semplicità del Vangelo.
Chiudo con un aneddoto. Un rabbino chiese al profeta Elia:
"Quand'è che verrà il Messia?". Ed egli rispose:
"Perché non lo chiedi direttamente a Lui ?".
Certo - replicò il rabbino -, se solo sapessi dove posso
trovarlo e da che cosa lo riconoscerò". Allora Elia
disse: "Lo puoi incontrare alle porte di Roma e lo
riconoscerai perché sarà in mezzo ai poveri, fra le
persone che si lamentano per le loro piaghe". Il
rabbino si recò a Roma e, trovato il Messia, gli chiese:
"Quando verrai a salvarci?". Ed Egli rispose:
"Oggi...". Il rabbino se ne andò infuriato senza
attendere che il Messia avesse completato il discorso.
Tornato da Elia, gli disse: "Anche lui mi ha mentito,
ha detto che sarebbe venuto oggi, ma io non vedo i segni
della sua presenza". Allora Elia spiegò: "Hai
avuto troppa fretta e non hai atteso la fine del suo
discorso. Lui voleva dirti: Oggi, se voi ascoltate la mia
voce".
Questo racconto è significativo per due ragioni: perché è
vero che il Messia sta lì, in periferia, alle porte di Roma
e perché è vero che lo si incontra solo in mezzo ai
poveri. Oggi possiamo illuminare la Sua presenza se
cominciamo a vivere realmente con responsabilità.
Arturo Paoli
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La
globalizzazione e l'occidente
malato
Intervista ad Arturo Paoli
di Michele Marziani (www.volontarimini.it)
A coloro che coltivano lo
sdegno come coltivano l'amore" Sembra di sentirle
sospese nell'aria queste parole del poeta Pedro Tierra
durante il XVIII Convegno Nazionale della Rete Radié Resch,
appena conclusosi a Rimini. Quello della Rete Radié Resch,
un'associazione impegnata da 35 anni in iniziative concrete
di solidarietà, è un appuntamento che ogni due anni offre
l'occasione per riflettere sui problemi più vicini al sud
del mondo, e soprattutto per dare voce a quei popoli che
normalmente non hanno voce. I temi su cui si è appuntata
l'attenzione quest'anno sono stati quelli della
globalizzazione e del Giubileo. E proprio di questi
argomenti abbiamo parlato con una delle voci più autorevoli
del convegno, Arturo Paoli. Originario di Lucca, sacerdote e
"Piccolo fratello del Vangelo", sull'esempio di
Padre Charles de Foucauld, Paoli vive dal 1959 in Brasile, a
fianco dei più poveri e dei più deboli. All'attività di
sacerdote accompagna quella di conferenziere e saggista,
ispirandosi alle idee della teologia della liberazione. Tra
i suoi testi ricordiamo Grideranno le pietre. Essere
cristiani in America latina, Il grido della terra, Dialogo
della liberazione, Ricerca di una spiritualità per l'uomo
d'oggi, Il sacerdote e la donna.
Al convegno della Rete
di quest'anno si è parlato di globalizzazione della
giustizia, in opposizione a quella economica. In una sua
testimonianza ha sottolineato come sia fondamentale
ricercare nella nostra società globalizzata quei punti
deboli capaci di trasformarsi in occasioni di resistenza.
Cosa significa agire in questa direzione?
"Io direi che ci sono
due aspetti importanti" - risponde Paoli "Il
primo aspetto è quello di analizzare il nostro Occidente,
aiutarlo a vedersi. Noi andiamo avanti religiosamente,
politicamente, economicamente, come se l'Occidente fosse un
organismo sano, mentre è un organismo malato. E quindi
andiamo avanti così, sconsideratamente, verso un abisso.
Dobbiamo cominciare ad analizzare un po' le debolezze, le
contraddizioni che sono dentro questo mondo occidentale. E
poi è importante vedere non dalla parte dei vincitori, ma
da quella dei vinti. Solo nel momento in cui noi
conquisteremo questa posizione, potremo cominciare a
progettare un mondo nuovo. Come si vede analizzando anche la
Rivoluzione Francese, quelli che sono stati travolti sono
quelli che non hanno preso in tempo la coscienza della
fragilità della società nella quale vivevano. Mi ha
interessato molto un bellissimo libro di Asor Rosa, 'Fuori
dall'Occidente'. Finalmente uno che analizza implacabilmente
l'Occidente come un groviglio di contraddizioni. Il problema
è quello di aver messo al centro della vita l'economia, che
si è trasformata in un processo di accumulazione. E' come
se una famiglia dimenticasse gli affetti, le relazioni. Come
se dimenticasse di essere fatta di esseri umani, con i loro
bisogni, la loro affettività, la loro positività. E
facesse del guadagno, dell'accumulazione l'unico senso. Lo
stesso succede alla nostra società. Il problema è
l'accumulazione a tutti i costi, senza controlli. E
l'accumulazione si fa sempre creando delle vittime, a spese
di qualcuno".
Si parla
insistentemente della necessità di intervenire sul debito
estero dei paesi del sud del mondo. Cosa pensa delle varie
proposte per cancellare questo debito?
"Teoricamente è una
cosa perfetta, perché realmente questi paesi sono oppressi
dal debito pubblico. Ma bisogna cominciare a chiedersi:
perché si fa questo debito, e soprattutto, chi lo fa?
Quelli che hanno la possibilità di comprare i prodotti
dall'estero, quindi non sicuramente il povero. Il debito è
fatto da gente ricca, quindi c'è il grave pericolo che la
remissione vada a loro vantaggio. Questa remissione deve
essere controllata, deve andare alle spese sociali. Sono i
poveri che ne devono essere risarciti. Anche perché sono
loro che stanno pagando questo debito, che vengono
spogliati. Loro che non hanno casa, terra, ospedali,
scuole".
Una riflessione sul
Giubileo. E' stato detto che stiamo assistendo ad una
scandalosa mercificazione di questo evento religioso. Come
possiamo recuperarne l'autentico significato?
"Io penso che ci sia
poco da fare, perché ormai è impostato così. Secondo me
ci deve essere una grande riforma. Non dobbiamo cambiare i
dogmi, ma la nostra maniera di vivere la fede. Il grande
guaio è che tutto à concentrato sul culto, sulla solennità,
sulla liturgia, e quasi nulla sull'etica. Quello che
propongo è di cambiare direzione. Noi siamo abituati sempre
ad andare verso l'alto, verso i templi, le solennità, i
Giubilei, mentre Dio è sceso sulla Terra. E' quasi
umoristico. Noi siamo andati su, ma Dio non c'è perché è
quaggiù. Tra noi, nel volto dell'altro".
Una sua speranza per il
nuovo millennio.
"La più grande
speranza, per me, è lo scoprire che ci sono delle voci
profetiche che sempre più avanzano e hanno importanza, voci
che insistono su questa necessità dell'etica . Sulla
necessità di aiutarci, di volerci bene, di pensare
all'importanza dell'uomo. Sta avanzando nel nostro mondo
occidentale una nuova cultura. Una cultura che parte da
un'altra base antropologica: dalla negazione che l'uomo è
solo ragione. L'uomo infatti è sentimento, è passionalità.
L'uomo è uno che non funziona solo con la testa, ma con
tutto il corpo. L'etica della responsabilità nei confronti
degli altri e della natura, allora, può e deve unificare
credenti e non credenti"
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Quando
finirà la cuccagna del re?
Lo incontrammo già nel
"sessantotto": e fu una provocazione. L'abbiamo
riascoltato ad oltre 30 anni di distanza, dopo aver letto
alcuni suoi libri: e la sorpresa continua.
Arturo Paoli, a 87 anni, inquieta sempre. Ha il cuore del
profeta Amos, che grida: "Cesserà l'orgia dei
buontemponi... Cambierò le vostre feste in lutto"
(Amos 6,7 e 8,10). Ci assale un timore: che non vi siano
persone, sufficientemente cristiane, pronte all'impatto.
a cura di Francesco
Bernardi
Fratel
Arturo, si discute sempre di società. In base alla sua
vasta esperienza in Europa e America, come vede la società
presente?
È una società violenta, e non solo a causa delle guerre.
È violenta intrinsecamente; il suo funzionamento è
malvagio, perché produce milioni di affamati, miserabili,
esclusi; genera l'accumulazione di ricchezza nelle mani di
pochissimi. Sono i poveri che arricchiscono sempre di più i
ricchi. Ma non è un dono volontario, bensì un fenomeno
meccanico che sottrae vita a tutti (ricchi compresi), per
aumentare l'opulenza. È una società violenta soprattutto
fra noi, perché è riuscita a togliere la responsabilità
di costruire un ambiente consono alla dignità dell'uomo.
In
tutto questo, qual è il rapporto con la globalizzazione?
Globalizzazione significa ridurre a mercato il senso della
vita, fare della ricchezza l'unico scopo. I poveri si sono
sempre contrapposti ai ricchi (e viceversa). Al presente però
c'è una grande differenza: mentre, fino a ieri, i ricchi
non sono mai riusciti a togliere la libertà dei poveri,
oggi il progetto neoliberista (da non confondere con
liberale) ne riduce ogni giorno di più lo spazio.
Gli italiani non si meraviglino che non esistano più
partiti seri, che manchino idee nuove e valide, che non si
riesca a risuscitare la politica nobile. Questo è una
conseguenza del progetto neoliberista, dove tutto è
sottoposto ai dettami del mercato. Quindi siamo schiavi.
Siamo di fronte a una delle forme dittatoriali più crudeli.
In
Brasile, dove lei opera, quali sono le ricadute della
globalizzazione?
Ho visto il modo vergognoso con cui il Fondo monetario
internazionale, fedele al neoliberismo, ha concesso un
prestito. Il fatto è stato anche condannato dalla
Conferenza episcopale cattolica, perché non ha fatto altro
che aumentare la fame dei poveri. Il prestito del Fondo (un
flusso enorme di denaro) è finito nel meccanismo diabolico
dell'accumulazione. Pertanto non solo non ha giovato ai
poveri, ma li ha immiseriti ancora di più.
Usando
l'auto o il computer, diventiamo complici della società
violenta che li ha prodotti?
Non dobbiamo partire dall'esterno. Se lo facciamo, cadiamo
in una casistica che complica ulteriormente la vita. Non
dico che non dobbiamo cercare la sobrietà; ma non basta.
L'importante è assumere un atteggiamento di spiritualità,
incarnare nella nostra vita i drammi che vengono dal nostro
mondo. Gesù, più che annunciatori della parola, vuole che
siamo noi stessi "parola". È questo il
significato dell'evangelico "far vedere le nostre opere
buone".
Che dire, allora, della spiritualità del monaco?
Una certa spiritualità monastica non dico che sia finita,
ma oggi forse non è ciò che il mondo chiede. Al presente
conta una spiritualità di solidarietà che assuma l'altro
con i suoi problemi. Noi pensiamo sempre a ciò che dobbiamo
insegnare. Invece l'uomo d'oggi ci chiede, soprattutto, di
essere testimoni di fronte al peccato facendolo nostro. Dico
pure che, in Italia, oggi sarebbe necessario ritornare
all'Azione cattolica, ripensandola.
I poveri aspettano.
I poveri hanno anche "la pietra al collo" del
debito estero. La sua abolizione può dar loro respiro?
In clima di globalizzazione c'è il grave sospetto che
l'abolizione del debito non rechi alcun vantaggio ai poveri.
Fratel
Arturo, qualcuno potrebbe accusarla di catastrofismo!
Come cristiano, ritengo importante ripensare la nostra
posizione di fronte alla società. Prima di tutto, dobbiamo
assumerci la responsabilità del meccanismo di violenza che
viene da una società cristiana... che però ha svuotato il
cristianesimo.
La sapienza del vangelo è stata quasi annullata da una
persistente cultura greca, dualista, che separa il reale
dallo spirituale. Oggi è urgente ridurre le distanze e
dire, con il teologo Giambattista Metz, "più
Gerusalemme e meno Atene".
Ritorniamo
al debito. Come traduce oggi "rimetti i nostri debiti,
come noi li rimettiamo ai nostri debitori"?
Bisogna acquisire la coscienza dei propri debiti ed
ammettere che tutti siamo responsabili dell'uccisione di
tanti poveri nel mondo. Non basta riconoscere alcuni
peccatucci! Un ebreo come Levinas e un cristiano come
Dostoevskij hanno detto, ciascuno per proprio conto: io sono
il più grande peccatore. Per non parlare di san Vincenzo De
Paoli, che in punto di morte diceva alle suore: fatevi
perdonare la carità.
Come sono grandi i nostri debiti!
Fratel
Arturo, il suo è un atto di accusa generale. Non rischia,
forse, di generare un rifiuto psicologico? In tal caso, il
suo discorso è controproducente.
Anche se abbiamo la coscienza di non avere offeso alcuno, né
di avere contratto dei debiti, dobbiamo rinnovare
l'atteggiamento di Gesù. Lui solo poteva dire di essere
giusto, di non essere assolutamente responsabile della
violenza. Eppure si è fatto peccato, cioè ha assunto il
male, senza divenire malvagio. Per far capire che cosa vuol
dire amore di Dio, Cristo è entrato nell'ingiustizia
convertendola in grazia sulla croce. Non si può
testimoniare l'amore del Padre se non dentro i conflitti
innescati dal peccato. Lo so: esistono altre forme di
solidarietà, quali l'elemosina e la beneficenza; ma sono
superficiali e inadeguate.
Conosce qualche uomo di chiesa che "si è fatto
peccato" per vincere il peccato?
Il mio pensiero va ai vescovi Romero in El Salvador e
Girardi in Guatemala, entrambi martiri. Ma ci sono state
migliaia di persone che, in questi anni, hanno dato la vita
trasformando il peccato in grazia, ripetendo quanto è
avvenuto sul calvario. Questo non è stato un sacrificio
espiatorio - come qualche teologo del passato affermava -
per pagare un debito; è stata la trasformazione del delitto
in atto di amore, di offerta di sé.
Lei
è anche un missionario. Come giudica la missione oggi?
Occorre ripensarla. I primi missionari dell'America Latina
si preoccupavano quasi solo della salvezza dell'anima: per
loro "dare la vita" significava portare la verità,
la "loro" verità. Ritengo che il compito
fondamentale del missionario sia un po' diverso. Bisogna
andare ai poveri, come Gesù, per annunziare giustizia e
pace. Questo non possiamo farlo solo con le parole, ma con
la nostra persona, trasmettendo una vicinanza alla gente.
Si sa che la ragione umana è riuscita a creare tante
distanze, che favoriscono tutte le incoerenze. La filosofia,
con l'idealismo, ha voltato le spalle alle sofferenze,
considerando impura la fatica, il dolore, la malattia, il
lavoro. Questa è stata la sorte anche della teologia: altro
che incarnazione come Gesù Cristo. Così facendo, ci siamo
resi complici di un cristianesimo-peccato anche oggi.
Non
è possibile invertire rotta?
È compito dei giovani liberare il cristianesimo dalla
complicità con il male. L'occasione arriverà quando
l'"impero americano" avrà un cedimento e finirà
la sua cuccagna. Allora tutto il sud del mondo ci salterà
addosso e ci accuserà come cristiani: "Siete stati voi
ad affamare il mondo, ordinare le guerre e fornire armi;
siete stati voi a creare un meccanismo economico
inumano".
In tale contesto i giovani avranno il volto credibile e
pulito per imprimere al cristianesimo un'altra direzione.
Intanto tutti dobbiamo renderci conto che non siamo affatto
cristiani se ci accontentiamo della messa domenicale e di
qualche funerale in chiesa. Vengono chiamati in causa
soprattutto un cristianesimo e una teologia che hanno
voltato le spalle a Cristo.
A questo allude il papa quando parla di "nuova
evangelizzazione". Senza angoscia sterile, ma anche
senza l'arroganza della nostra cultura.
Ieri
i missionari sono spesso caduti nella trappola della loro
presunta superiorità culturale. Che dire di quelli d'oggi?
Anche i missionari d'oggi devono farsi perdonare la loro
arroganza. Alcuni movimenti laicali, andati in America
Latina, hanno fatto tacere persino il papa, che chiedeva
loro una vera inculturazione. Questa viene tradita dalla
prassi di organizzazioni, tutte lontane dal popolo, ma
ossequienti ad una certa aristocrazia spirituale. Il
risultato è sotto gli occhi di tutti: si moltiplicano le
sètte, che propongono un cristianesimo alienante.
Ci sono laici, presunti missionari, che vanno in America
Latina per applicare rigorosamente statuti, formule di
preghiera, schemi di ritiri spirituali confezionati in
Europa. È l'anti-inculturazione. E il popolo sente che la
chiesa si allontana sempre di più dai suoi problemi.
Un'occasione
per farsi perdonare può venire dall'anno santo?
Io vedo anche un'insidia nell'anno santo. La società del
"prendi, usa e getta" può intromettersi nel
religioso, strumentalizzandolo per scopi di lucro. Bisogna
stare molto attenti.
L'altro giorno, mentre tornavo a casa, una donna è crollata
per strada; è venuta la polizia e ha chiesto che cosa
avesse. Forse bisognava domandare da quanto tempo non avesse
mangiato. È in ambiti come questo che bisogna entrare, per
fare "giubileo".
La
porta del giubileo CHE NON SIA A SENSO UNICO
Leggendo
da ragazzo I Malavoglia del Verga piansi al racconto di 'Ntoni
che ritorna in carcere. La sorella vorrebbe trattenerlo e
lui restare, ma 'Ntoni sa che deve andare. Uscito di casa,
si ferma nel buio e attende che si chiuda la porta. Lo
sbattere dell'uscio alle spalle segna la rottura definitiva
dal suo passato, dalla sua radice...
Se visiterò San Pietro nell'anno giubilare, è probabile
che non entri nella basilica dalla porta santa, per evitare
code. Ma il "vuoto" creato da questa porta che si
apre è importante. Ne parlo spesso con gli amici che
chiedono le ragioni della mia pace.
So di appartenere ad una famiglia ricca. E non parlo di
ricchezze materiali, ma di quelle dottrinali, accumulate
dalla sapienza dei padri, dalla speculazione dei dottori,
dalle suppliche dei santi. Ma io vivo con poco, e questo mi
riempie di gioia. Vivo in due stanze senza immagini. Eppure
questo vano, come quello della porta santa, non dà sul
nulla. E vorrei che le porte dei vescovadi, seminari,
monasteri, nunziature e sacre congregazioni, dove si
decidono gli orientamenti della chiesa, si aprissero sul
mondo vero, dove il tempo si fa storia.
A un rettore di un seminario teologico ho chiesto se non
sarebbe opportuno, invece di inviare i chierici nel
fine-settimana alle parrocchie per fare pastorale,
orientarli verso le case di raccolta dei bambini di strada,
verso i giovani malati di aids, verso famiglie che vivono
nelle baracche. Le disposizioni di Roma pare che non lo
permettano. Così i portoni continuano a difendere il
privilegio.
L a porta santa potrebbe essere il simbolo dell'apertura sul
mondo reale, dove il peccato umano non è più un'entità
spirituale invisibile, che si presume di cancellare con un
segno di croce, ma un fenomeno drammatico, un vero segno di
morte. Ho notato persone impallidire, quando nelle favelas
hanno visto con i loro occhi i segni chiari dell'assenza di
amore.
Quelli che decidono i metodi di formazione e clericalizzano
i giovani, che saranno per sempre incapaci di distinguere
diritti da privilegi, dovrebbero riflettere se la formazione
non sia molto prossima all'alienazione e alla distruzione di
una vera identità.
Forse
non ci chiediamo mai seriamente perché il Cristo risorto
mostri le piaghe aperte. Vuol fare solo un riferimento ai
modi con cui l'hanno giustiziato o anche alle piaghe del suo
corpo mistico che restano aperte e sanguinanti? È possibile
conoscere Gesù senza mettere le nostre mani nel suo costato
aperto?
La porta del giubileo che si apre mi ricorda, per
contrapposizione, quella che si chiude alle spalle di 'Ntoni.
Ho incontrato tanti fratelli e sorelle che hanno confessato
di aver sentito sbattere alle loro spalle (e per sempre) una
porta definita santa.
Nel giubileo la porta santa diventa come il luogo della
decisione. Il papa la interpreta come il passaggio per
raggiungere Cristo, la sua grazia. Ma una porta è anche il
varco da cui si esce. So che dalla basilica nessuno potrà
uscire per la porta santa. Però è necessario uscire nel
mondo, senza abdicare alle proprie responsabilità.
Risuonano le parole di san Paolo: "Cristo patì fuori
della porta della città [città santa, porta santa].
Usciamo, dunque, anche noi dall'accampamento e andiamo verso
di Lui portando il suo obbrobrio" (Eb 13, 12-13). Se
uno vuole incontrarsi col Cristo carico di vergogna, la cosa
è facilissima: basta andare incontro agli esclusi, agli
sbattuti fuori dalla porta.
Per i più la porta santa resterà a senso unico, e forse la
grazia che riceveranno sarà il sorgere di antiche angosce,
segno di non aver trovato il cammino verso il luogo dove
oggi Gesù è crocifisso. Solo questo sfocia nella pace
promessa.
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Difendere
Cristo dal Cristianesimo di Arturo Paoli
Anni fa, proprio in questo luogo, padre Ernesto
Balducci disse che le tre caravelle di Colombo erano tornate
indietro. Era un modo di dire che Cristo è essenzialmente
liberatore, e liberatore dei poveri. La teologia della liberazione
è un messaggio non solo per i poveri, ma anche per tutti coloro,
credenti e non credenti, che fanno parte di questa cultura
"cristiana" occidentale che oggi è direttamente
responsabile dei mali del mondo. E’ da qui che vengono le
guerre, le distruzioni, la fame: dal mondo occidentale cristiano.
E’ qui che si fabbricano le armi, è da qui che partono gli
aerei che vanno a bombardare. Dobbiamo assumerci le nostre
responsabilità. Dobbiamo sapere che non possiamo affrontare temi
come la giustizia, l’uguaglianza, i diritti dei popoli se non
cambiamo radicalmente la nostra cultura.
Noi abbiamo sempre pensato che il centro del mondo è
l’Io, l’essere, il soggetto, e abbiamo proiettato questo
concetto in tutte le strutture che abbiamo creato e imposto.
Compresa la globalizzazione, apoteosi di un soggetto dominatore e
unificante: il mercato. La volontà di sopprimere l’altro,
l’incapacità di riconoscere la sua cultura, la sua storia, la
sua religione, il suo diritto alla vita, è la conseguenza diretta
del culto dell’Io. Per lo stesso motivo la Chiesa è
chiesocentrica, lo stato è statocentrico.
Il rispetto dell’altro non è un atto di volontà,
dev’essere il frutto di una cultura nuova che deve ancora
nascere. Fino a che non cambieremo questo paradigma tutti i nostri
progetti saranno superficiali. La richiesta di perdono fatta di
recente dal Papa è commovente, ma è come dare l’aspirina a una
persona che muore di cancro. Finché non cominciamo a vivere in un
altro modo, finché non capiremo che la solidarietà con i poveri
non è buon cuore, ma un modo di uscire dalla colpa, di rendere
giustizia, tutti i nostri discorsi politici non serviranno a
niente. Ci manca un’etica, abbiamo perso il sentiero della
giustizia, non sappiamo più cosa è giusto e cosa non lo è.
L’etica deve essere costruita sui diritti degli oppressi: solo
partendo da questa base possiamo pensare a un mondo nuovo. Cristo
ha predicato la fraternità a partire dai più deboli. Oggi noi
predichiamo le stesse cose da Wall Street, dal nostro comodo
benessere; predichiamo principi, idee, senza mai mettere i piedi
per terra. Sono secoli che pensando di amare opprimiamo. Oggi
dobbiamo difendere Cristo dal Cristianesimo. (www.manitese.it)
Difendere Cristo dal Cristianesimo, a
cura di Bruna Sironi (www.nigrizia.it)
Arturo Paoli, Piccolo fratello del Vangelo (della famiglia
spirituale di Charles de Foucauld), era a Firenze per il convegno
internazionale di Mani Tese (19-20 marzo). “Nuove regole per il
nuovo millennio” il tema in discussione, che ha affrontato nel
ruolo di profeta dei nostri tempi. Con Nigrizia si è lasciato
andare, con il suo linguaggio incisivo, al suo sogno di chiesa.
Negli anni ’50 la partecipazione dei cattolici alla vita pubblica
poteva e doveva passare da un unico partito. Arturo Paoli fu tra
coloro che affermavano l’autonomia dei laici nelle scelte
politiche, posizione riconosciuta legittima solo molti anni dopo,
con il concilio Vaticano II. Fu allontanato dall’Italia. Arrivò
in America Latina, a Buenos Aires, nel 1960, per un’esperienza
limitata nel tempo; dopo quarant’anni non è ancora finita. Da
quindici vive nel sud del Brasile, a Foz do Iguaçú, una località
con contraddizioni economiche e sociali fortissime, dove la
globalizzazione economica e culturale è vissuta in pieno, sulla
propria pelle, dalla gente che, dall’indigenza delle favelas, si
confronta con il mondo opulento degli hotel a cinque stelle.
Il desiderio di ripartire, la nostalgia per le persone e per le
attività momentaneamente lasciate, si legge in ogni sguardo, in
ogni espressione di questo vecchio dall’aria mite e sorridente,
ma dalle parole forti e dirompenti.
Lei ha detto e ripetuto che la cultura cristiana è
responsabile dei mali del mondo. Qual è il senso della sua
affermazione?
Il mondo occidentale cristiano è il luogo da cui partono tutti i
comandi di morte, da cui si organizzano le guerre, in cui si
realizza l’accumulazione che toglie il pane a milioni di
persone. E non c’è caduto per disgrazia, in quest’avventura
di essere il centro del male del mondo. È una conseguenza logica
e fatale della sua cultura. Abbiamo sempre pensato che il centro
di tutto è l’io, l’essere, il soggetto, e abbiamo proiettato
questa filosofia su tutte le strutture politiche ed economiche che
abbiamo creato.
Anche la globalizzazione non è venuta a caso, ma è la
conseguenza di un cammino filosofico di secoli, che ha affermato
questo principio di unificazione dando origine alla necessità di
un soggetto unico, dominatore. E ha prodotto il mercato, la
dittatura, il partito. Creazioni astratte, unificanti, dominanti
il mondo e la storia, che hanno intrinseca la tendenza alla
negazione, alla soppressione dell’altro.
Ci siamo vantati di portare al mondo la civiltà, ma aveva questo
veleno dentro: la necessità di sopprimere l’altro, di non
riconoscergli la sua cultura, la sua religione, la sua vita.
Dobbiamo assumerci questa responsabilità.
Il papa ha chiesto perdono per le responsabilità della
chiesa…
È molto commovente, ma è come un’aspirina per una persona che
sta morendo di cancro. Il papa ha detto di aprire le porte a
Cristo, ma a quale Cristo? Quello solenne, dominatore, o quello
povero fra i poveri? Perciò non ha fatto altro che caricare di
responsabilità il mondo cristiano.
Ci manca un’etica. Abbiamo perso il senso della giustizia. Se
accettiamo la sponsorizzazione di pellegrinaggi da parte di
multinazionali che conoscono solo l’etica del profitto, come
possiamo dire di no alla clonazione? Dobbiamo essere integrali,
coerenti, completi. La nostra etica deve partire dai diritti degli
offesi, degli oppressi. È solo su questa base che possiamo
pensare un nuovo mondo.
Come deve essere una chiesa nuova?
Dobbiamo difendere Cristo dal cristianesimo, dalla cultura
cristiana. Cristo ha predicato la fraternità, la giustizia. A
partire dai poveri, dalle vittime dell’ingiustizia. Non ha fatto
mai teoria, non ha mai parlato neanche di Dio, si è semplicemente
messo accanto ai poveri. Cristo è essenzialmente liberatore, e
liberatore dei poveri.
Nel suo intervento ha parlato molto della teologia della
liberazione.
È stata una rivoluzione culturale in quanto vedeva possibile la
conoscenza di Dio attraverso la discesa tra gli uomini, per
realizzare la giustizia, l’uguaglianza, la fraternità; temi
spesso dibattuti ma che non possono essere risolti senza un
cambiamento totale della nostra cultura. Doveva essere un
messaggio felice per i poveri, ma non poteva non suscitare la
reazione dell’Erode e della Gerusalemme religiosa del tempo.
Il missionario è in contatto con i poveri e li aiuta con
denaro che, a volte, proviene da chi agisce contro l’interesse
dei poveri. Quale dovrebbe essere il rapporto tra il missionario e
il denaro?
La missione, come tale, non dovrebbe esistere. Lo dice Gesù
stesso. Basta leggere il capitolo 10 del Vangelo di Luca. Si deve
andare tra i poveri come amici, senza nulla, e farsi accogliere.
Bisogna invertire la posizione: non sono io, ricco, che vado al
povero, ma devo andarci povero, alla pari con lui. È il concetto
stesso di missione che bisogna cambiare. Se c’è una
disuguaglianza di partenza non si può mai creare una vera
amicizia.
Qual è il ruolo della donna in una chiesa rinnovata?
La donna è la metà dell’umano, e la chiesa dovrebbe essere
pensata e organizzata tenendo conto di questo. Nei consigli
pastorali la donna ha un suo ruolo, ma è il prete, la gerarchia,
che non sono preparati. Così la donna non produce opinione
all’interno della chiesa. Esiste come consigliera, direi
occulta, ma è un modo non leale di ascoltare la sua voce. Se non
le si vuol dare il sacerdozio, bisogna almeno darle parità di
diritti.
Ricordo un fatto che mi ha molto colpito. Per l’anniversario
della conquista dell’America il mio vescovo ha organizzato una
veglia notturna in cattedrale. Ha chiamato a partecipare il
sacerdote guaraní, che ha pregato tenendo per mano la moglie.
Dopo la cerimonia ha cominciato un lungo discorso. Non so il
guaraní, così ho chiesto a un giovane cosa aveva detto. «Ha
ricordato tutto quello che ha visto dal momento in cui ha lasciato
il villaggio», mi ha risposto. Poi ha cominciato la moglie. «Anche
lei ha ricordato tutto quello che ha visto da quando ha lasciato
il villaggio». «Allora hanno ripetuto le stesse cose», ho
osservato. «Veramente, sono stati sempre per mano, ma quello che
ha visto lui non è lo stesso che ha visto lei», ha replicato il
giovane.
È una lezione che non dimenticherò mai. Voglio dire che
l’ideale è la coppia. L’uomo solo, la donna sola, vedono e
capiscono metà di quello che c’è da vedere e capire.
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LA
PORTA SANTA
di
Arturo Paoli
(www.christusrex.org)
La porta
santa si aprirà la vigilia di Natale del 1999: evocherà il
passaggio che ogni cristiano è chiamato a compiere dal peccato
alla grazia, e ricorderà che nessuno può avere accesso al Padre
se non per mezzo di Gesù. Fratel Arturo Paoli in questo articolo
"allarga" il significato di questo passaggio.
Quando una
trentina di anni fa arrivai con un fratello nella parte
occidentale della provincia della Rioja mi parve di giungere in un
villaggio abbandonato per una decisione collettiva di fuga.
Restava solo una casa abitata da due indie molto anziane, che ci
offrirono due ambienti da abitare provvisoriamente, finchè
fossero terminati i lavori di restauro di un vecchio mulino
abbandonato.
Mi
accompagnava un antico abitante di questo villaggio, e mi mostrava
i resti di case di fango e paglia che in una ventina d'anni si
erano polverizzate. Restava di loro un segno: tre travi robuste
che indicavano la soglia di ingresso alla casa ora inesistente.
Mi raccontava
la mia guida che a causa di questi tre pali erano avvenuti dei
litigi tali che arrivavano alla "giustizia", così si
esprimeva. Perché? - chiedevo sorpreso - ormai non servono più a
nulla e potrebbero essere utilizzati visto che sono di un legno
molto forte e pregevole. La mia osservazione era interessata,
perché pensavo all'utilità che quei legni avrebbero potuto avere
per i lavori di restauro della nostra casa. Ma per fortuna non
manifestai il mio interesse. Capii subito che togliere uno di
questi pali era esattamente come violare una tomba.
La
porta e le radici
La casa non
esiste più e le famiglie sono partite per luoghi lontani,
qualcuna è andata ad abitare nella città capoluogo ma nessuna
pare abbia il progetto di tornare. Però la soglia, la porta di
ingresso deve restare e un uomo del luogo è pagato dalle antiche
famiglie per vegliare sulle soglie. Questi tre pali, due verticali
e uno orizzontale, erano la famiglia che continuava a vivere
lontana ma legata a questo luogo. Il giorno in cui avessero
distrutto la soglia o bruciato quei pali la famiglia sarebbe
andata distrutta.
Col tempo i
loro discendenti nati in città certamente non si ricorderanno più
di quelle soglie, del custode e delle tradizioni religiose o
superstiziose che davano senso alla sopravvivenza di quei
"monumenti". E probabilmente proprio per questo, proprio
perché senza radici, andranno ad ingrossare il numero di coloro
che agitano le periferie delle grandi città delle loro
inquietudini, delle proteste violente contro una vita che non
riusciranno più a trovare bella, e non sapranno più come farla
bella.
Le famiglie
emigrate nel capoluogo Rioja, che in seguito conobbi, mi fecero
capire che la soglia lasciata nel luogo di origine era il segno
della solidità della famiglia, simbolo religioso della sua
continuità.
Di notte,
sotto la luna, le strutture disseminate su quel deserto ondulato
mi parevano esseri viventi e spesso pregavo per loro e con loro,
pensando a quelli che si sentivano uniti a quella soglia e ai
dispersi che avevano spezzato le loro radici e vivevano senza
trovare il senso del vivere.
I portoni dei
palazzi nobiliari della mia antica città, Lucca, mi parvero il
segno di una lontananza della comunità cittadina. Un distacco
orgoglioso che facevano sentire che la famiglia al di là di
quella porta superba non era della città. I portoni si vedevano
aprire e chiudere per lasciar passare degli anni di una macchina,
e si intravedevano per un attimo le architetture stupende dei
cortili di accesso alla casa. Ora questi palazzi sono passati
quasi tutti alle amministrazioni pubbliche, i portoni sono aperti
e lasciano vedere quei meravigliosi cortili sconosciuti a molti di
noi, salvo che qualche compagno di scuola ci introducesse nel suo
palazzo spesso per studiare insieme.
Leggendo
nella mia adolescenza I Malavoglia ricordo che piansi al racconto
di 'Ntoni che torna dal carcere. La sorella vorrebbe trattenerlo e
lui vorrebbe restare, ma sa che non può, che se ne deve andare.
Uscito di casa si ferma nel buio e attende che la sorella chiuda
la porta. Lo sbattere di quella porta che si chiude alle sue
spalle segna la rottura definitiva dalla sua famiglia, dal suo
passato, dalla sua radice. Tutti noi portiamo lungo la nostra vita
dei ricordi che si potrebbero definire profetici perché si
ripresentano con un valore indicativo di scelte e atteggiamenti
importanti.
Apriamo
le nostre porte
Oggi le porte
sono per lo più il simbolo della paura piuttosto che
dell'accoglienza. I sistemi di chiusura non sembrano mai troppo
sicuri. Un amico di San paolo venuto a visitarci si meraviglia
della fragilità delle nostre porte, egli che vive quasi in uno
stato di assedio.
Riflettendo
sull'apertura della porta santa, sono venuti alla luce questi tre
ricordi, come una vecchia stampa sbiadita a cui un procedimento
chimico permette di ridonare le sue immagini.
Ricordo di
aver visto partire soavemente senza rumore questa porta ai colpi
di martello vibrati con molto energia dall'allora papa Pio XII.
Era l'anno '50, era fresco il ricordo di un congresso trionfale
della gioventù cattolica, e stavamo entrando nel tempo della
critica all'interno della Chiesa. Il vano aperto dal pontefice al
calar del sole viene chiuso da una porta di legno. Ripensando a
quegli anni mi pare che molti di noi li vissero come gli abitanti
del villaggio abbandonato, lontani da quel soglio ma attaccati a
quelli stipiti non di legno ma di marmo, che nessuno avrebbe mai
divelto, noi partimmo lontano, ma rimanemmo legati come le
famiglie del villaggio riojano.
Se visiterò
San Pietro nell'anno giubilare è probabile che entri nella
Basilica da un'altra porta per evitare l'attesa di una lunga fila.
Ma il simbolo di questo vuoto è per me importante in questo
epilogo della vita.
Mi trovo
spesso nell'occasione di parlare di questo vuoto ad amici che mi
chiedono le ragioni della mia pace. So di appartenere a una
famiglia molto ricca direi troppo ricca, e non parlo delle
ricchezze materiali ma delle sue ricchezze dottrinali, di quelle
riserve accumulate dalla sapienza dei padri, dalla speculazione
dei dottori, dalle suppliche gridate e lacrimate dei suoi santi.
Ma io sento di vivere con molto poco, e questo poco mi riempie di
pace e di gioia. Vivo in due stanze senza quadri, senza immagini
eppure questo vano come quello della porta santa non dà sul
nulla.
Ripenso ai
portoni dei palazzi della mia città natale e vorrei che come
quelli si sono aperti per lasciare uscire i giovani in cerca di
lavoro da cui fino a pochi anni fa erano dispensati per il
privilegio della loro nascita, vorrei che le porte dei palazzi o
delle ville dei vescovi, dei seminari, dei monasteri, delle
nunziature, delle sacre congregazioni dove si decidono gli
orientamenti della chiesa si aprissero finalmente sul mondo vero
dove il tempo si fa storia, vera storia.
A un rettore
di un seminario teologico ho chiesto se non sarebbe opportuno,
invece di inviare i chierici nella fine di settimana alle
parrocchie per fare della "pastorale", orientarli verso
le case di raccolta dei bambini di strada, verso gli ospedali dove
i giovani malati di AIDS attendono la morte, alle famiglie che
vivono nelle baracche. Perché lasciare questa iniziativa di
battere alle porte delle favelas ai mormoni, ai testimoni di Geova,
agli addetti allo spiritismo? Le disposizioni di Roma pare che non
lo permettano, i portoni continuano a difendere il privilegio.
Aprire
sul mondo reale
La porta
santa potrebbe essere il simbolo di questa apertura sul mondo
reale, dove il peccato umano non è più un'entità spirituale
invisibile che si presume cancellare con un segno di croce, ma un
fenomeno drammatico, un vero segno di morte.
Ho visto
persone impallidire quando nelle baracche delle favelas hanno
visto con i loro occhi i segni chiari dell'assenza di amore.
Quelli che
decidono metodi di formazione, che clericalizzano i giovani che
saranno per sempre capaci di distinguere diritti da privilegi,
essenze invisibili da realtà fenomeniche e per questo
irraggiungibili dai gemiti dell'uomo, dovrebbero riflettere se la
formazione non si molto prossima all'alienazione e alla
distruzione di una vera identità.
Forse non ci
chiediamo mai seriamente perché il Cristo risorto mostri le
piaghe aperte. Vuole fare solo un riferimento al metodo con cui lo
hanno giustiziato o alle piaghe del suo corpo mistico che
continuano a restare aperte e sanguinanti? È possibile conoscere
Gesù senza mettere le nostre mani nel costato aperto?
Il vano della
porta santa che si apre quando ai lievi colpi del martello,
naturalmente d'argento, viene rimosso il muro che lo riempiva mi
ha ricordato la porta che si chiude alle spalle di "Ntoni
reduce dal carcere. Ho incontrato tanti fratelli e tante sorelle
che mi hanno confessato di aver sentito sbattere alle loro spalle
e per sempre una porta definita santa o sacra. Sono quelli che
dopo aver accettato con gioia la rinunzia a una famiglia propria,
avvertono il sorgere di una identità che non coincide con quella
esistenza che stanno conducendo dal momento in cui hanno accettato
questo stato di vita.
Mentre scrivo
ho lasciato da poco persone che non hanno dimenticato il rumore di
quella porta, e avvertono il contrasto con quel vano aperto che
pare invitare tutti a entrare in una casa dove tutti vengono
rimessi nella loro dignità e nei loro diritti. Sono quelli che
hanno vissuto l'esperienza della donna di Magdala e di essere
stati come lei governati dai sette spiriti maligni. Come lei hanno
trovato il liberatore e sono rinati, sono altri, ma rinati nello
Spirito continuano a essere asserviti alla legge. Liberati ma non
liberi perché non hanno indossato la veste bianca e non hanno
messo l'anello al dito. Ammessi nella sala del banchetto ma con la
proibizione di sedersi alla mensa. Ho pensato a tutti quelli che
vivono l'esperienza del giovane siciliano che torna a casa, ma non
gode la festa del ritorno, vengono invitati a restare ma non
possono.
È vero che
questo rifiuto viene ampiamente riempito dall'invito diretto al
cieco di cui parla il capitolo 9 del vangelo di Giovanni. Il cieco
è uno che fa l'esperienza dello sbattere di una porta, anzi due,
quella della sua propria casa perchè i genitori non lo vogliono
più e quella sacra del tempio. Io vorrei scomporre un po' la
struttura del racconto; i versi 39-41 li metterei dopo il 34 perché
fanno parte della giornata turbolenta, di accese polemiche che ha
come punto massimo l'espulsione della sinagoga del miracolato
"lo buttarono fuori" (34). Su questa giornata
agiatissima cala la pace della sera, quest'uomo uscito dal carcere
è libero e avverte questa gioiosa libertà ma non sa bene dove
andare; le due porte meta del ritorno sono state chiuse e non si
riapriranno. È allora che incontra Gesù e trova l'approdo
definitivo: "Signore io credo".
Cristo
patì fuori della porta
Scrive il
papa nella Bolla: "L'indicazione della porta richiama la
responsabilità di ogni credente ad attraversare la soglia.
Passare per quella porta significa confessare che Gesù Cristo è
il signore, rinvigorendo la fede in Lui per vivere la vita nuova
che egli ci ha donato.
È una
decisione che suppone la libertà di scegliere e insieme il
coraggio di lasciare qualcosa".
Al di qua
della porta santa c'è la società della violenza, della negazione
dell'amore, dell'ingiustizia, della vera grande insopportabile
sofferenza di gran parte dell'umanità; al di là della soglia non
c'è quella liberazione quasi automatica dal peccato come mi
avevano insegnato nell'anno 1925 quando bambino attraversai più
volte quella soglia per ricevere quelle grazie che avrei
distribuito specialmente ai miei genitori.
La porta
santa diventa come il luogo della decisione. Il papa la interpreta
come il passaggio per raggiungere Cristo, la sua grazia, la vita
divina. Ma una porta è anche il varco dal quale si esce. So che
dalla basilica nessuno potrà uscire per la porta santa perché
sarà a senso unico.
Ma dalla mia
esperienza di aver incontrato troppi laici clericalizzati,
spiritualizzati, liberati attraverso un'immersione in una
miracolosa piscina dalla "responsabilità", dalla
decisione, dal coraggio, le tre forme dello spirito credente
indicate dal papa, sogno la porta santa come varco di uscita nel
mondo.
Risuonano in
me le parole di san paolo: "Cristo patì fuori della porta
della città (città santa, porta santa). Usciamo dunque anche noi
dall'accampamento e andiamo verso di Lui portando il suo
obbrobrio" (Eb 13,12-13). Se uno vuole incontrarsi col Cristo
caricato di obbrobrio, la cosa è facilissima: andare incontro
agli esclusi, agli sbattuti fuori dalla porta.
Non so se
sono troppo audace, ma sento dentro di me che Gesù chiederebbe
che sulla soglia fossero indicate due direzioni. Una verso il Gesù
glorioso che siede alla destra del padre, fatto come lui
onnipotente e l'altra di uscita verso il servo sofferente caricato
di obbrobrio.
Per
i più la porta santa resterà a senso unico, e forse la grazia
che riceveranno sarà il sorgere delle antiche angosce segno di
non aver trovato il cammino verso il luogo dove oggi Gesù è
crocifisso. Solo questo sbocca nella pace promessa.
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Arturo
Paoli non partecipa al Giubileo degli anziani
Caro
amico e fratello,
tu
avrai notato in me una certa reticenza davanti al progetto
"17 settembre". Approfitto di un momento di
grazia per aprirti il mio cuore. Ho cercato nella mia vita, se
vuoi aggiungi l'aggettivo spirituale - per me superfluo - di
essere vero con Dio. Non essendo capace di "perfezione"
ho scoperto che nostro Padre mi chiedeva soprattutto la verità,
non quella verità cui si viene meno con le bugíette definite
peccati veniali; ma quella verità che Gesù unisce al verbo fare:
"fare la verità". Nel deserto, spogliato di tutto, il
nostro maestro un vero beduino ci martellava continuamente
l'ideale: "essere veri". E questo ideale ha costituito
la stella che ha guidato il mio lungo cammino. E non vorrei
perderla di vista ora che felicemente sono all'ultima tappa. E mi
spiego. La famosa convocazione dei "baschi verdi" fu
certamente una indimenticabile preghiera; ma fu anche una
acclamazione a Pio XII e una rassegna di forze su cui poteva
contare (e glielo ripetevamo in canto) in un momento in cui si
temeva una affermazione di una ideologia dalla quale saremmo stati
dominati.
Sono
certo, anche se il ricordo é lontano, che io partecipai a quella
notte con totale
adesione e con l'entusiasmo che fremeva in quella piazza. Ora non
potrei promettere questa totale adesione, perché? Perché
sotto il pontificato di Giovanni Paolo II i poveri della
America latina sono stati massacrati. Come? Togliendo loro
sistematicamente i pastori, loro protettori e difensori. Si è
inaugurata così una pastorale pentecostale esattamente secondo il
progetto Reagan per combattere la "comunista" teologia
della liberazione. Trovo molto triste, ma perfettamente logico che
i poveri abbandonati, preferiscano il cattolicesimo delle
cosiddette sette, al pentecostalismo cattolico, che manifesta la
dolorosa assenza di pastori amici e protettori.
Non
ho nessuna intenzione di negare la mia obbedienza al successore di
Pietro, e meno di giudicarlo. Per una grazia specialissima ho
capito fino in fondo che chi può giudicare é solo il Giusto, il
Misericordioso, il Santo. Non mi preoccupa minimamente la teologia
della liberazione al sicuro oltre le frontiere dell'America
latina, ma non potrei acclamare il Papa, entrare con voi nella
sala Nervi, dimenticando i gemiti di quelli che sono la mia
famiglia.
Essere
veri oggi, tempo nel quale il mondo ha urgente bisogno di etica,
vuol dire mantenere chiara la differenza sostanziale fra quella
che nella Chiesa é ingiustamente definita carità e laicamente si
chiama elemosina, beneficenza, e la giustizia. Bisogna in tutti i
modi, a qualunque costo combattere questa confusione che contiene
un tradimento alla verità.
Per
denunziare questo tradimento e per non tradire i poveri non
parteciperò a questa vostra iniziativa.
Vogliate
scusarmi e non interpretate la mia assenza come mancanza di amore
per voi. Gli anni della nostra militanza sono un ricordo
bellissimo, pieno di profumo. Cammineremo sempre insieme sulle
tracce del nostro Maestro Gesù fino alla fine della nostra vita,
verso la liberazione definitiva.
Vostro
fratello Arturo
Paoli
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Ai
giovani in occasione della Giornata della Memoria
Un
anziano che vi ha tanto amato e continua ad amarvi vi invita oggi
a fermarvi un momento, oggi 27 gennaio. Siete ancora pieni di
sonno, avete lasciato suonare la sveglia, e ora bevendo il caffè,
vi mettete in fretta il casco, il motorino vi attende alla porta e
via, comincia la vita. Ma vi chiedo un solo momento! Anch’io fui
giovane, e il tempo della mia prima gioventù era pieno di
speranza: l’Italia pareva un adolescente impaziente di prendere
il volo verso il suo futuro. Mussolini il dittatore parlava spesso
di aquile, voleva volare a occupare quegli spazi percorsi dalle
legioni romane. Vedeva la Roma in cammino, la Roma conquistatrice,
audace, implacabile verso i popoli che opponevano resistenza. Non
aveva tempo di ascoltare il gemito dei vinti, li affidava al giogo
di tiranni locali, e seguitava ad avanzare. Il condottiero non si
prese il tempo di ascoltare la Roma del diritto, la Roma saggia,
quella a cui l’Ebreo crocifisso era tornato con un messaggio di
riconciliazione e di pace.
E
allora fu la guerra. Nel tempo di questa guerra sbarcò la mia
prima giovinezza e vide improvvisamente cadere tutti i sogni: il
fragore delle bombe impose il silenzio dei canti che inneggiavano
la grandezza fatale di Roma. Avevo accolto lungamente il messaggio
di riconciliazione e di pace dell’Ebreo di Nazareth e lo seguii
in un grande palazzo disabitato dove con tre compagni ci
disponemmo ad accogliere quelli che la guerra spingeva
quotidianamente a mettersi sulle strade in cerca di asilo. Qui
conoscemmo l’arresto della storia. Quelli che avevano tentato di
affascinarci nel sogno di essere portatori di civiltà nel mondo,
apparvero improvvisamente invasori venuti da terre lontane, esseri
che venivano da epoche a noi sconosciute, esseri predatori,
distruttori assetati di sangue e di vendetta. Ricordo la giovane
coppia venuta dal nord d’Europa portando il ricordo della
famiglia distrutta nei forni crematori, dopo un lungo viaggio in
vagoni piombati, ammassati come oggetti senza valore. La donna
portava nel suo ventre la vittoria sulla furia devastatrice e
cercammo di mettere al sicuro questo piccolo seme che conteneva la
forza della vita, la speranza sicura della sua vittoria sulla
morte. E mentre l’uomo mi raccontava le barbarie della shoah
vedemmo entrare gli S.S., quelli che Hitler chiamava “i miei
lupi”, lo nascosi in uno strettissimo sottoscala deposito di
carta da gettare e di altri rifiuti. I lupi ruppero porte,
bruciarono, distrussero, e arrivarono da me che li accolsi con
apparente sorpresa e indifferenza. E passarono oltre... Cercai io,
impietrito dentro, di far tornare i sensi al mio ebreo svenuto. E
la vita continuò.
Accogliendo
le notizie di quello che accade oggi nella terra che è tornata ad
essere del popolo disperso, mi pongo la domanda: perché si è
cancellata così presto la memoria di un tempo in cui l’umanità
assistette rabbrividendo all’incontro della più acuta follia
con la più audace razionalità? Perché il ricordo non è
riuscito a distruggere ogni radice di vendetta, cedendo il luogo a
sentimenti di pace e di riconciliazione? A questa domanda sorge
dentro di me la risposta: forse l’umanità è ancora incapace di
un amore così forte, così generosamente altruista da superare
per sempre il ritorno di istinti feroci preumani. Forse perché il
progetto di umanizzazione del nostro io, di crescita nella
dimensione dell’alterità, non è riuscito a liberarsi dalle
tentazioni del piacere immediato, della comodità,
dell’interesse egoistico. Vi lascio la fiducia che voi giovani
saprete avanzare in questa linea. Dalle ceneri di Aushwitz si leva
la voce di una ragazza spensierata come voi, come voi avida di
piacere, Etty Hillesum: vi dice di amare come lei la vita, di
dissipare con il perdono e l'amore i venti dell'odio e della
vendetta, di saper scoprire al di là delle nubi nere il sole di
Dio che non desiste dal cercare noi che continuiamo ad azzuffarci
come adolescenti inferociti. Ascoltate la voce.
Fratel
Arturo Paoli
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Il
dramma dell’opulenza
Intervista
ad Arturo Paoli
di Alberto Bobbio
tratta da Jesus (www.stpauls.it)
Cosa
succede se la Chiesa diventa troppo "organica" alla
logica delle società capitalistiche occidentali? Trascura i
poveri e perde coraggio e radicalità nell’annuncio del Vangelo.
Un profeta dei nostri giorni analizza lo stato di salute di una
comunità ecclesiale che corre il rischio di essere molto
"visibile" e potente ma poco autorevole.
Lui
dice che basta guardarsi in giro per persuadersi che i risultati
di una società fondata sull’egoismo sono disastrosi. Ed è
anche convinto che lo saranno sempre di più. «A meno che…».
Arturo
Paoli, 90 anni, una vita intensa di prete e di profeta, erede di
Carlo Carretto (2 aprile 1919 - 4 ottobre 1988) tra i Piccoli
Fratelli di Charles de Foucauld, "Giusto delle nazioni"
per Israele per aver salvato la vita a un ebreo a Lucca nel 1944,
sacerdote da 62 anni, scrittore e conferenziere in tutto il mondo,
uomo che da 40 anni condivide la vita con i boscaioli, i contadini
dello Stato del Paranà in Brasile, spiega cosa ha guidato la sua
vita e cerca di spendere qualche parola sulla fede in questa
intervista che è un po’ come un testamento. Il nostro incontro
con Arturo Paoli prende le mosse da un libro, l’ultimo dei suoi,
intitolato Quel che muore, quel che nasce (Ega, lire
22.000).
-
Cominciamo
da quell’"a meno che…". Cosa vuol dire?
«A
meno che non prendiamo su di noi il peccato del mondo.
Concretamente, senza pensare che il raddrizzamento delle
situazioni che non vanno, insomma che la redenzione dell’umanità,
sia qualcosa affidata, come si diceva, al sangue di Cristo.
Bisogna lasciarsi guidare dai volti delle persone, bisogna andare
nei sotterranei della Storia dove vivono le persone. Dobbiamo
occuparci delle vittime e non gioire per la bravura dello stratega».
-
C’è
troppa angoscia in giro oggi?
«Sì,
angoscia e paura. Ossessioni. Siamo ossessionati dal denaro, dal
sesso, dal gioco e anche da santi buoni e un po’ antichi che
pensiamo ci possano risolvere tutti i problemi. Compreso quello
della nostra sicurezza. In ogni campo. Ma la nostra angoscia più
grande è data dalla incapacità, che ci rode dentro, di prevedere
il futuro. Facciamo finta di essere spavaldi, perché non
riusciamo a calcolare tutto. Umberto Eco ricorre alla fantascienza
per pensare, solo pensare, al futuro»
-
Come
si fa a guardare nei sotterranei della Storia?
«Ci
si riesce solo se al centro della vita il cristiano mette il Regno
di Dio e non se stesso. Insomma facendo quello che coerentemente
ci consiglia il Concilio Vaticano II. Bisogna far sparire l’io
come preoccupazione personale, che provoca angoscia. Quanti sono
quelli che credono che lo Spirito agisce nella Storia e la
trasforma? Quanti credono al Vangelo che dice "chi vuol
salvare la propria anima la perderà"? È un tema centrale
perché rimanda alla polemica che Gesù ha aperto con il mondo
religioso della sua epoca. Gli ebrei rimandavano continuamente al
passato, ad Abramo, a Mosé, ai profeti. Lui no, si occupa delle
persone. Dice che Dio è qui davanti a voi: il povero, la
vedova... La carità non deve servire a me, non è un rimedio alla
mia angoscia. Perché si può essere caritatevoli senza essere
giusti, se si mantengono le distanze».
-
La
Chiesa è responsabile di una religiosità della distanza?
«Certo.
La Chiesa – non tutta – ha ritirato Dio in cielo. Dice agli
uomini: consolati, il Regno di Dio è vicino. Nelle omelie dei
preti si parla di cose lontane. I sacramenti sono parole e non
simboli. Dov’è lo Spirito che sprona a fare? Il Vangelo ha
raccomandato l’annuncio attraverso la persona, non attraverso le
parole. È la persona che parla. La parola è solo rimedio
d’emergenza. Se la mia vita non testimonia, io non posso neppure
parlare».
«Male.
Non ha seguito fino in fondo l’ordine dello Spirito Santo e del
Vangelo. Il centro della predicazione si è spostato: dal Regno di
Dio alla visibilità della Chiesa, alla sua grandezza, al suo
potere. Parla molto la Chiesa, scrive molto. Non si può dire che
non si occupi dei poveri: mai sono state prodotte tante parole
sull’argomento, mai tanti documenti. Viviamo una religiosità
opulenta, anche dal punto di vista intellettuale. Sappiamo come
affrontare i problemi, sappiamo come risolverli, da soli, sempre
da soli, senza contare sugli altri. I poveri, i barboni, gli
esuli, cosa contano per me intellettuale, per la mia teologia, per
la mia pastorale? Il Vangelo è ridotto a manifestazioni rituali o
metafisiche. Voglio fare una provocazione e dire ai credenti:
spogliatevi anche della vostra fede e allora comincerete a capire
cos’è la gratuità».
-
Ma
tutta la Chiesa è così?
«Non
tutta. Nei Paesi poveri modelli di Chiesa diversi sono stati
soffocati, ma non distrutti. Alla Chiesa era stata servita su un
piatto d’argento la teologia della liberazione, ma è stata
rifiutata. Ripeto: soffocata, non distrutta».
-
Eppure
la riflessione attorno a un nuovo umanesimo è stata portata
avanti…
«E
con grande forza, per esempio da Giovanni Paolo II, soprattutto
negli ultimi anni in modo profetico. Ma la Chiesa è troppo legata
all’Occidente. Ha dovuto mantenere buone relazioni con il
capitalismo. Gesù dice che saremo giudicati non
sull’obbedienza, ma se l’avremo visto nudo, affamato,
prigioniero, schiavo. Tutto lì. Vederlo sta solo a me».
-
Lei
è dunque contro la Chiesa, i suoi dogmi?
«No.
Per me l’obbedienza non è un problema. Ma dico che il concetto
di "santo" non coincide necessariamente con
"religioso". Il giudizio va dato sulla costruzione del
Regno di Dio: beati i poveri, i miti… Io sento che sarò
giudicato su questo, non sul devozionalismo, che in questo secolo
non ha impedito guerre e sangue. È sull’uso della mia libertà
che mi si chiederà conto. Se uno risponde "Eccomi", è
santo. Diventare santi è drammaticamente difficile appunto per
l’estrema semplicità della risposta. È difficile obbedire a
Dio piuttosto che agli uomini».
-
La
Chiesa tuttavia oggi è molto visibile, di essa si parla e
si scrive. Allora cosa c’è che non va?
«La
Chiesa gode di grande prestigio. Vorrei dire che il carisma del
prestigio è sceso sugli Stati e sui popoli. Molti stanno ad
ascoltare le parole del Papa. Molti restano ammirati dalla sua
figura e dalle cose che dice. Ma la disobbedienza formale e la
noncuranza rispetto ai suoi insegnamenti è enorme. Nella Chiesa
quelli che prendono sul serio la responsabilità di fare la
giustizia, di difendere il diritto dei poveri, molto spesso
vengono emarginati. E di solito fanno molto meno di quello che è
scritto nei documenti. Prenda il Brasile, Paese visitato tante
volte dal Papa: che riscontro hanno avuto le sue parole forti
sulla giustizia, sulla distribuzione della terra, sui popoli
oppressi? Zero. Chi oggi è convinto che amore per gli altri
significa uso sobrio dei beni? Molti credenti nel mondo praticano
una buona spiritualità individuale, ma poi sono assolutamente
sfrenati nell’uso del denaro, anarchici nell’uso dei beni. Non
si può giustificare il primato di Dio, sopra tutti gli altri
diritti».
-
Parliamo
del Concilio. Perché lei spesso dice che è stato tradito?
«È
stato il Concilio Vaticano II a richiamare i credenti sulla
centralità del Regno di Dio e sul ruolo dello Spirito Santo. Il
Concilio ci ha chiesto di aprire le porte e non soltanto di
parlare di Dio, ma di camminare con gli uomini, di affermare il
diritto a una vita piena, di esaminarci in base alla giustizia o
all’ingiustizia. Non ci ha insegnato a consolarci con la
religione. Quando Gesù va via da Nazareth non si mette a fare il
guru, non va nel tempio di Gerusalemme ad ascoltare, ma ad
attaccar briga, dando la prova tremenda del suo unico interesse:
costruire il Regno di Dio. Noi invece ci ritiriamo sul culto, a
volte in modo narcisista».
-
Ma
le responsabilità sono dei preti o dei laici?
«Di
entrambi. Cominciamo dai preti, che sono educati secondo forme
rigidamente borghesi. I preti – non tutti – stanno troppo
bene. Si occupano di sé stessi. C’è troppa paura di perdere
vocazioni. Vengono allenati ad avere coscienza di sé, a essere
altro rispetto al mondo. Ecco l’insistenza sul sacramento
dell’Ordine che vale di più di altri sacramenti, compreso
quello del matrimonio. Stanno chiusi nei seminari e vanno nel
week-end nelle parrocchie. Io domando: quando si calano sulle
piaghe di Cristo? È sicuramente migliorata la formazione
intellettuale. Le omelie sono più colte, più dotte che in
passato. Ma sono spesso anche più lontane dalla vita reale che
nel passato. La Chiesa ha come paura di essere invadente, di
essere esigente. Non si può dire che i giovani rifiutano la
Chiesa. Se si analizzano le cose in profondità, si vede che essi
non capiscono, non ci comprendono. Dio non c’è nel loro
orizzonte».
«Manca
di audacia. Passa da un ritiro spirituale a un altro, ma poi non
si interroga sulla propria responsabilità davanti alla società.
Non si può essere contro la manipolazione della vita, contro una
bioetica sbagliata, e poi dichiarare valido il sistema economico
che arriva a queste aberrazioni, quello che succhia il sangue dei
poveri, che è la benzina di cui ha bisogno il nostro mondo troppo
ricco per vivere. Vogliamo una società nuova, ma poi applaudiamo
al politico di turno. Siamo troppo miopi, non siamo capaci di
guardare avanti. Il laico che vive la sua responsabilità politica
con autonomia, sapendo che di essa deve dar conto solo davanti a
Dio, oggi è scomparso. Naufragate le ideologie, il laicato
religioso è stato inglobato nella Chiesa, che ne ha marcato la
clericalizzazione».
«Ho
ammirato De Gasperi, La Pira, Dossetti come cattolici. Uomini che
sapevano distinguere l’area religiosa da quella politica e la
propria autonomia e responsabilità dall’obbedienza dovuta alla
Chiesa. Uomini che erano convinti di rispondere al Vangelo e non
al prestigio della Chiesa nel Paese in cui abitavano. Dov’è
finita la tradizione che loro hanno incarnato? Il laico credente
– uomo o donna che sia – non deve rifugiarsi sotto le ali
della Chiesa per stare al caldo e dimostrare che sa fare. Ha una
responsabilità adulta, libera, autonoma, di rendere il mondo più
umano della quale risponderà solo a Dio».
Alberto
Bobbio
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Arturo
Paoli
LA
PORTA STRETTA
Anno C - 26 agosto 2001 - XXI
Domenica del Tempo Ordinario
(Is 66,18-21; Sal 116; Eb 12,5-7.11-13; Lc 13,22-30)
"Verranno
da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e
siederanno a mensa nel Regno di Dio"
Penso
che il mondo sarebbe migliore se in tutte le omelie si
avvertissero i fedeli che partecipano all'assemblea domenicale di
abbandonare il vezzo diventato quasi spontaneo di pensare che il
Vangelo sia diretto agli altri. Cioè applicare le parole di Gesù
alla suocera, al macellaio, al comunista, all'albanese o al
marocchino. Credo che il vero successo, la vera conversione di una
comunità cristiana, specialmente quella che partecipa ai ritiri e
che si propone una specializzazione nella spiritualità, sarebbero
raggiunti se ciascuno tornasse a casa con questa convinzione: a
me, proprio a me, e solo a me, Gesù oggi rivolge queste parole.
Il vezzo di scaricare sugli altri accuse che vogliono svegliarci
perché finalmente mettiamo la mano all'aratro non è solo nostro,
del nostro tempo. Nel capitolo undici c'è un passaggio nel quale
Luca coglie la mentalità religiosa corrente. Ascoltando Gesù che
inveisce contro i farisei, un dottore della legge si sente
assalito da un pensiero: "Io non sono del club dei farisei,
ma sono vicino a loro, non sarà che entro anch'io nella
condanna?". E con una certa timidezza si rivolge a Gesù:
"maestro, dicendo questo offendi anche noi" (Lc 11,45).
Sta attento con le tue scudisciate a non ferire qualche innocente.
Ma il maestro rincara la dose: "guai anche a voi". Non
si scappa. Ognuno prenda il suo. Da questi squarci di indignazione
appare chiaro che Gesù non è un moralista. Il moralista mette la
persona a confronto con la legge, e normalmente scarica sulla
persona un complesso di colpa. Se vuol liberarsi deve tornare, e
si crea un vincolo di dipendenza fra maestro e discepolo, o per
essere più precisi, fra terapeuta e paziente, che difficilmente
si spezza. Gesù colloca la persona religiosa davanti alla
decisione: o ti impegni o te ne vai. Non mi far perdere il tempo.
Il giovane ricco vuole andare a scuola di spiritualità. Come fare
per essere più buono, tu che sei buono devi avere la ricetta. È
come la signora che vede un'amica con una pettinatura perfetta e
le chiede l'indirizzo della parrucchiera. Ma Gesù non ha formule
e mette subito il giovane di fronte alla decisione. E lui parte.
Anche questo insuccesso illumina lo stile di Gesù: non mette il
laico in uno stato di dipendenza, ma di fronte a una libertà di
scelta. O ti decidi o te ne vai; a Gesù non piacciono le persone
incapaci di decidersi.
L'altra maniera per sfuggire al colpo di spada è quella di
indugiare su un'esegesi scientifica della Parola. In questo brano
Gesù parla di una porta stretta, evidentemente è la porta del
paradiso. Allora saranno pochi quelli che si salveranno? C'è chi
dice molti, chi dice tutti e c'è chi ha visto scendere
all'inferno tanta gente come fiocchi di neve. E così andando
dietro alle diverse opinioni si specula, si indaga, si rimanda la
decisione. Ma, benedetti discepoli di Gesù, pensate qui,
all'oggi: la porta stretta è lo straniero che disprezzate, sono
le occasioni quotidiane che vi disturbano, che vi obbligano, che
scomodano il vostro io che preferisce la calma e le pantofole.
Martin Buber ha detto che l'ebreo è colui che vive la sua vita
allo scoperto, sotto lo sguardo di Dio, Gesù, non
dimentichiamolo, è ebreo. Davanti a tanti rifiuti nascosti sotto
le apparenze di docilità e di obbedienza alla Parola, Gesù
finisce per dirigersi agli ultimi, agli esclusi, ai disprezzati.
Davvero ti sei ricordato di noi? Davvero vieni a trovarci nelle
cloache dove ci hanno spinto a vivere? Possibile che ti lasci
toccare da questa fetida prostituta? E sarà questa sorpresa,
questo accorgersi improvvisamente che avviene l'incredibile, ciò
che mai si sarebbe osato sperare, la risposta unica che Dio
attende dall'uomo.
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