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“Quella
parte di me,
la
più profonda
e
la più ricca
in
cui riposo,
è
ciò che io chiamo Dio” |
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Nata
nel 1914 in Olanda da una famiglia della borghesia
intellettuale ebraica, Etty Hillesum muore ad Auschwitz
nel novembre del 1943.
Ragazza
brillante, intensa, con la passione della letteratura e
della filosofia, si laurea in giurisprudenza e si
iscrive quindi alla facoltà di lingue slave; quando
intraprende lo studio della psicologia, divampa la
seconda guerra mondiale e con essa la persecuzione del
popolo ebraico.
Durante
gli ultimi due anni della sua vita, scrive un diario
personale: undici quaderni fittamente ricoperti da una
scrittura minuta e quasi indecifrabile, che abbracciano
tutto il 1941 e il 1942, anni di guerra e di oppressione
per l’Olanda, ma per Etty un periodo di crescita e,
paradossalmente, di liberazione individuale.
Sotto
l’aspetto vivace e spontaneo, Etty è profondamente
infelice: in preda a sfibranti malesseri fisici, scopre
a poco a poco che questi sono in relazione con tensioni
di ordine spirituale.
Forse
anche a seguito di carenze educative e vuoti affettivi
dovuti al burrascoso matrimonio dei suoi genitori, in
quel periodo Etty vive relazioni sentimentali
complicate, che la lasciano “lacerata
interiormente e mortalmente infelice”.
Dopo
tanti errori, finalmente l’incontro decisivo con uno
psicologo ebreo tedesco, Spier, molti anni più anziano
di lei, che si rivela ben più di un terapeuta:
attraverso le contraddizioni di una relazione complessa,
inizialmente anche ambigua, egli la guida in un percorso
di realizzazione umana e spirituale. L’aiuta a
conoscere e ad amare la Bibbia, le insegna a pregare, le
fa conoscere S. Agostino ed altri autori fondamentali
della tradizione cristiana: sarà per Etty un mediatore
fra lei e Dio.
Seguendo
quindi un proprio itinerario, Etty matura una sensibilità
religiosa che da’ ai suoi scritti una grande
dimensione spirituale.
La
parola “Dio” compare anche nelle prime pagine del
diario, usata però quasi inconsapevolmente, come spesso
accade nel linguaggio quotidiano. A poco a poco però
Etty va verso un dialogo molto più intenso con il
divino, che percepisce intimo a se stessa: “Quella
parte di me, la più profonda e la più ricca in cui
riposo, è ciò che io chiamo Dio”.
Ormai
libera dagli errori del passato, si avvia sulla strada
del dono di sé a Dio ed ai fratelli, nel suo caso il
popolo ebraico, la cui sorte sceglie di condividere
pienamente.
Nel
1942, lavorando come dattilografa presso una sezione del
Consiglio Ebraico, avrebbe la possibilità di aver salva
la vita, invece sceglie di non sottrarsi al destino del
suo popolo e nella prima grande retata ad Amsterdam si
avvia al campo di sterminio con gli altri ebrei
prigionieri: è infatti convinta che l’unico modo per
render giustizia alla vita sia quello di non abbandonare
delle persone in pericolo e di usare la propria forza
interiore per portare luce nella vita altrui.
I
sopravvissuti del campo hanno confermato che Etty fu
fino all’ultimo una persona “luminosa”.
Al
momento della sua partenza definitiva per il campo di
sterminio Etty, che presagisce la fine, chiede ad
un’amica olandese di nascondere i suoi quaderni e di
farli avere ad uno scrittore di sua conoscenza, a guerra
finita.
I
manoscritti, così difficili da decifrare a causa della
grafia, passano così per anni da un editore
all’altro, senza che nessuno ne intuisca
l’importanza, fino a che nel 1981 giungono nelle mani
dell’editore De Haan che, pubblicandoli, finalmente
riporta alla luce la storia di Etty Hillesum,
permettendo così ai lettori di tutto il mondo di
conoscere la ricchezza di un’esperienza interiore che,
anche di fronte alla sofferenza estrema, sa lodare la
vita e viverla con pienezza di senso. |
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TESTI |
LA
NON VIOLENZA IN AUSCHWITZ (1)
Ieri,
per un momento, ho pensato che non avrei potuto continuare a
vivere, che avevo bisogno di aiuto. La vita e il dolore
avevano perso il loro significato, avevo la sensazione di
"sfasciarmi" sotto un peso enorme, ma anche questa
volta ho combattuto una battaglia che poi all'improvviso mi ha
permesso di andare avanti con maggiore forza. Ho provato a
guardare in faccia il "dolore dell'umanità".
Ho
affrontato questo dolore, molti interrogativi hanno trovato
risposta, l'assurdità ha ceduto il posto ad un po' più di
ordine e di coerenza: ora posso andare avanti di nuovo. E'
stata un'altra breve ma violenta battaglia, ne sono uscita con
un pezzetto di maturità in più. Mi sento come un piccolo
campo di battaglia su cui si combattono i problemi o alcuni
problemi del nostro tempo. L'unica cosa che si può fare è
offrirsi umilmente come campo di battaglia. Quei problemi
devono pur trovare ospitalità in qualche parte, in cui
possono combattere e placarsi e noi dobbiamo aprire loro il
nostro spazio interiore senza sfuggire.
Il
marciume che c'è negli altri c'è anche in noi, continuavo a
predicare; non vedo nessun'altra soluzione, veramente non ne
vedo nessun altra, che quella di raccoglierci in noi stessi e
di strappare via il nostro marciume. Non credo più che si
possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima
fatto la nostra parte dentro di noi. E' l'unica soluzione di
questa guerra (seconda guerra mondiale): dobbiamo cercare in
noi stessi, non altrove.
Le
minacce e il terrore crescono di giorno in giorno. M'innalzo
intorno la preghiera come un muro oscuro che offre riparo, mi
ritiro nella preghiera come nella cella di un convento, ne
esco fuori più "raccolta", concentrata e forte.
Questo ritirarmi nella chiusa cella della preghiera, diventa
per me una realtà sempre più grande. Dappertutto c'erano
cartelli che ci vietavano le strada per la campagna: Ma sopra
quell'unico pezzo di strada che ci rimane c'è pur sempre il
cielo, tutto quanto. Non possono farci nulla, non possono
veramente farci niente.
Possono
renderci la vita un po' spiacevole, possono provarci di
qualche bene materiale e di un po' di libertà di movimento,
ma siamo noi stessi a provarci delle nostre forze migliori col
nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci
perseguitati, umiliati ed oppressi, col nostro odio e con la
millanteria che maschera la paura. Certo che ogni tanto si può
essere tristi e abbattuti per quello che ci fanno, è umano e
comprensibile che sia così. E tuttavia: siamo soprattutto noi
stessi a derubarci da soli. |
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LA
NON VIOLENZA IN AUSCHWITZ (2)
Si deve
anche avere la forza di soffrire da soli e di non pesare sugli
altro con le proprie paure e con i propri fardelli. Lo
dobbiamo ancora imparare e ci si dovrebbe reciprocamente
educare a ciò, se possibile con la dolcezza e altrimenti con
la severità.
Dobbiamo pregare di tutto
cuore che succeda qualcosa di buono, finché conserviamo la
disposizione verso questo qualcosa di buono. Infatti, se il
nostro odio ci fa degenerare in bestie come lo sono loro, non
servirà a nulla.
L'unica cosa che possiamo salvare in questi tempi e
anche l'unica che veramente conti è un piccolo pezzo di te in
noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a
disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. Sì mio
Dio sembra che tu non possa far molto per modificare le
circostanze attuali. Io non chiamo in causa la tua
responsabilità, più tardi sarai tu a dichiarare responsabili
noi. E quasi ad ogni battito del mio cuore cresce la mia
certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te,
difendere fino all'ultimo la tua casa in noi.
Esistono persone
che all'ultimo momento si preoccupano di mettere in salvo
aspirapolveri, forchette e cucchiai d'argento, invece di
salvare te, mio Dio. E altre persone che sono ridotte a
ricettacoli di innumerevoli paure e amarezze, vogliono a tutti
i costi salvare il proprio corpo. Dicono: me non mi
prenderanno. Dimenticano che non si può essere nelle grinfie
di nessun se si è nelle tue braccia.
Mio Dio è un periodo troppo duro per persone fragili
come me. So che seguirà un periodo diverso, un periodo di
umanesimo. Vorrei tanto poter trasmettere ai tempi futuri
tutta l'umanità che conservo in me stessa, malgrado le mie
esperienze quotidiane. L'unico modo che abbiamo di preparare
questi tempi nuovi e di prepararli fin d'ora in noi stessi.
Vorrei tanto vivere per aiutare a preparare questi tempi
nuovi: verranno di certo, non sento forse che stanno crescendo
in me, ogni giorno?
La
miseria che c'è qui è veramente terribile, eppure alla sera
tardi quando il giorno si è inabissato dentro di noi, mi
capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato
e allora dal mio cuore s'innalza sempre una voce: non ci posso
far niente, è così, è di una forza elementare e questa voce
dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi
dovremo costruire in mondo completamente nuovo.
A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo
pezzettino di amore e di bontà che avremo conquistato in noi
stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere. E se
sopravviveremo intatti a questo tempo, corpo e anima ma
soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo
anche il diritto di dire la nostra parola a guerra finita.
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LA
NON VIOLENZA IN AUSCHWITZ (3)
Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso
pudore. La vita è difficile ma non è grave: dobbiamo
cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto
verrà da sé. Una pace futura potrà essere veramente tale
solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso; se
ogni uomo si sarà liberato dall'odio contro il prossimo, di
qualunque razza o popolo; se avrà superato quest'odio e l'avrà
trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore,
se non è chiedere troppo. E' l'unica soluzione possibile. E'
quel pezzettino d'eternità che ci portiamo dentro. Sono una
persona felice e lodo questa vita, nell'anno del Signore 1942,
l'ennesimo anno di guerra.
Le mie
battaglie le combatto contro di me, contro i miei proprio
demoni: ma combattere in mezzo a migliaia di persone
impaurite, contro fanatici furiosi e gelidi che vogliono la
nostra fine, no, questo non è proprio il mio genere. Non ho
paura, non so, mi sento così tranquilla. Mi sento in grado di
sopportare il pezzo di storia che stiamo vivendo, senza
soccombere. Mi sembra che si esageri nel temere per il nostro
corpo. Lo spirito viene dimenticato, s'accartoccia e
avvizzisce in qualche angolino. Viviamo in un modo sbagliato,
senza dignità. Io non odio nessuno, non sono amareggiata: una
volta che l'amore per tutti gli uomini comincia a svilupparsi
in noi, diventa infinito.
Bene, io accetto questa nuova certezza: vogliono il
nostro totale annientamento. Ora lo so: Continuo a lavorare e
a vivere con la stessa convinzione e trovo la vita ugualmente
ricca di significato, anche se non ho quasi più il coraggio
di dirlo quando mi trovo in compagnia.
La vita e la
morte, il dolore e la gioia e persecuzioni, le vesciche ai
piedi e il gelsomino dietro la casa, le innumerevoli atrocità,
tutto, tutto è in me come un unico, potente insieme e come
tale lo accetto e comincio a capirlo sempre meglio.
Un'altra
cosa ancora dopo quella mattina: la mia consapevolezza di non
essere capace di odiare gli uomini malgrado il dolore e
l'ingiustizia che ci sono al mondo, la coscienza che tutti
questi orrori non sono come un pericolo misterioso e lontano
al di fuori di noi, ma che si trovano vicinissimi e nascono
dentro di noi: e perciò sono meno più familiari e assai meno
terrificanti. Quel che fa paura è il fatto che certi sistemi
possono crescere al punto da superare gli uomini e da tenerli
stretti in una morsa diabolica, gli autori come le vittime. |
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