Abbiamo ricevuto dalla
comunità dei monaci di Montesole questo resoconto (molto
duro) dei testimoni della strage di Marzabotto. Lo
condividiamo con voi perchè il nostro fare memoria e
camminare su quella terra insanguinata sia gesto di
intercessione e segno di alleanza con tutte le vittime. Mai
più la guerra: dipende dal nostro impegno di ogni giorno!
Leggi l'esperienza di Francesco
Pirini, sopravvissuto alla strage.
Ti chiediamo, al termine
di questa lettura, di chiedere con noi l'intercessione dei
martiri di Montesole con la preghiera in poesia "Le
querce di Montesole" |
|
I
luoghi della strage di Marzabotto
Schede storiche
riassuntive delle principali testimonianze sui fatti
accorsi nelle singole località oggi comprese nell'area
del Memoriale.
(Dalle
ricerche storiche effettuate dalla dott. Beatrice Magni).
Scheda
storica n° 1: Caprara di Sotto
"La
prima menzione medioevale del luogo risale all'851, quando
Willari, prete bolognese, dichiara solennemente in un
documento di aver ceduto l'anno prima al conte Auterammo
di Modena vari suoi beni, fra cui la sua portionem de
porto qui vocatur Capraria, che non può evidentemente
essere stato situato nel luogo esatto di oggi, dal momento
che Caprara si trova sulle colline fra Reno e Setta, ma
che doveva ad ogni modo controllare la navigazione di un o
dei due importanti fiumi. Del castrum di Capraria,
oltre che del semplice locum Capraria, parla invece
una carta di quasi due secoli più tardi; nel 1042 infatti
fu registrata nel castrum qui vocatur Capraria una
donazione di terre poste nella montagna bolognese, da
parte di varie persone pure di Caprara, in favore del
monastero di S.Salvatore a Fontana Taona. Si specifica
inoltre che il borgo si trova infra plebe S. Laurencii
qui vocartur de Panico, il che suggerisce il suo
gravitare più sull'orbita renana che non sulla valle del
Setta. Ancora nel 1061 ne è testimoniata l'esistenza: i
quattro figli di Bonado di Caprara fanno una cospicua
donazione al monastero di S. Bartolomeo di Musiano. Altri
due personaggi provenienti da Capraria compaiono in
carte del XII secolo: Lamberto figlio del fu Redulfo di
Caprara testimonia nel 1111 in una concessione
enfiteutica, mentre Giovanni, figlio di Martino da Caprara
nel 1113 dona alcune terre alla chiesa di S. Vittore.
Antichissimo nucleo, un chilometro circa a nord-est della
parrocchiale di S. Martino, che costituiva nel Duecento,
con Casio, uno dei vicariati della montagna. Citato
nell'elenco del 1223, vi furono poi rilevati 28 fumanti
dal cardinale Anglic nel 1371, mentre all'epoca del
Calindri in questo ambito parrocchiale risiedevano 314
individui in 50 famiglie. Per la chiesa si rimanda alla
scheda relativa, mentre per l'abitato, già distrutto nel
1944, si rimanda alle foto del Fantini. La completa
distruzione di questo borgo ha interessato edifici di
particolare pregio storico ed architettonico. La località
fu fino al 1851 la sede comunale dell'attuale comune di
Marzabotto". Provincia di Bologna, op. cit., p. 11.
"In
questo luogo, prima dell'eccidio, vi era un gruppetto di
case ove abitavano una decina di famiglie, quasi tutti
agricoltori. 1 campi erano tutti sottostanti alle case con
un suolo ondeggiante, ma abbastanza fertile da raccogliere
abbondanti prodotti. I contadini avevano le stalle piene
di bestiame, che quando usciva per il lavoro nei campi
dava l'idea di un mercato; i giovani menavano i bovini in
fila per andare ad arare la terra. Qui c'era anche la
bottega del barbiere e quella dei generi alimentari; in un
tempo abbastanza non lontano c'era anche la sede comunale,
che venne poi trasferita a Marzabotto. Allora le famiglie
erano formate da molti giovani e ragazze che nei mesi
invernali si dedicavano ad altri lavori, chi faceva le
scope, chi i cesti di vimini. Veramente il luogo di
Caprara è scomparso, cancellato dalla memoria umana, ma
per un istante voglio ricordare la magica fontana, così
la chiamavano le vecchierelle. Della magica fontana esiste
ancora un piccolo segno: qui vicino ad un ciglio rialzato
c'è un piccolo tubo nel quale scorre un piccolo filo di
acqua. Qui attorno c'era un grande piazzale con piante di
alberi secolari, e per cingere il loro tronco, occorrevano
le braccia di tre persone. Gli abitanti di questo luogo
avevano costruito vaste vasche di cemento per raccogliere
l'acqua da abbeverare il bestiame, poi c'era il grande
lavatoio per lavare i panni". M. Janelli, op. cit.,
pp. 156-158.
"Il
paese era formato di due parti: Caprara di Sotto e Caprara
di Sopra; ma tra quella bassa e quella alta, comprendendo
la bottega e i cortili, non copriva più di qualche
ettaro. Intorno c'erano campagne fertili che i contadini
lavoravano a mezzadria [...]. In autunno maturavano le
castagne e nella zona se ne raccoglievano molte". J. Olsen, op. cit., pp. 44-45.
Caprara
di sotto fu sede del comune fino al 1828, poi il comune
venne trasferito a Marzabotto, pur mantenendo la
denominazione di Caprara sino al 1882.
In
Comitato Regionale per le Onoranze ai Caduti di
Marzabotto, cit., il numero dei caduti per mano dei
nazifascisti a Caprara è 58.
Scheda
storica n° 2: Caprara di Sopra
"Il
paese era formato di due parti: Caprara di Sotto e Caprara
di Sopra; ma tra quella bassa e quella alta, comprendendo
la bottega e i cortili, non copriva più di qualche
ettaro. Intorno c'erano campagne fertili che i contadini
lavoravano a mezzadria [...]. In autunno maturavano le
castagne e nella zona se ne raccoglievano molte". J. Olsen, op. cit., pp. 44-45.
"[Guido
Tordi:] Davanti alle case [di Caprara] vidi le prime
vittime dell'eccidio, due ragazze colpite al capo. Tutte
le case della zona erano in fiamme [...]. Dentro [la prima
casa] vidi una quindicina di cadaveri di civili, in
maggioranza donne e bambini, legati e massacrati, sui
quali avevano infierito con raffiche e bombe a mano".
R. Giorgi, op. cit., p. 59.
"[Adelmo
Benini:] In località Caprara vedemmo tre ragazze legate a
tre castagni in riga: le corde ne sostenevano i cadaveri
stretti al tronco, con le sottane sollevate sopra la
cintola, ed ognuna aveva un lungo bastone infilato di
forza fra le cosce". R. Giorgi, op. cit. p. 66.
"[Roberto
Carboni:] Finché ci furono nazifascisti nelle vicinanze,
cioè per cinque giorni, rimasi nascosto. Quando
finalmente tornai, mi si presentò la casa bruciata e in
parte crollata. Davanti a casa non c'era nessuno, ma come
entrai in cucina dopo essermi fatto strada fra le macerie,
la trovai piena di cadaveri accatastati. Erano 44, tutte
donne e bambini". R. Giorgi, op. cit, p. 70.
"[Gilberto Fabbri:] Ci stiparono tutti nella cucina
della casa di Caprara, di cui sbarrarono le porte
lasciando aperta solo una finestra, attraverso la quale,
subito dopo, scagliarono quattro bombe a mano di quelle
col manico, e una granata di colore rosso.[ ...] riuscii
egualmente a saltare dalla finestra e a nascondermi in
mezzo a un cespuglio, distante tre o quattro metri. Vidi
tre nazisti aprire la porta della casa e piazzare una
mitraglia. Volsi il capo inorridito, e dall'altra parte mi
apparvero due donne che scappavano affannosamente
attraverso il campo. Sentii degli spari e le due donne
caddero una a breve distanza dall'altra". R. Giorgi,
op. cit., p. 71.
"[Carlo
Castelli:] Fuori dell'abitato [di Caprara] una donna dai
capelli bianchi, vestita di nero, correva disperata col
fiato rotto dai singhiozzi. [Un soldato nazista] le fu
sopra, e rideva, l'afferrò per i capelli con la mano
libera, le girò lentamente la testa verso di sé, e le
sparò più volte in faccia". R. Giorgi, op. cit., p.
72.
"[Guerrino
Avoni:] Seguendo col binocolo, vidi che trascinavano le
donne dentro la casa di Caprara e poi vidi lanciare le
bombe a bastone e piazzare la mitraglia attraverso la
porta. All'improvviso, due donne saltarono dalla finestra
e si diedero alla fuga: ne seguii ogni passo col binocolo.
Era una vecchia, vestita di nero, si nascose in un campo
di granoturco: un nazista andò a cercarla. Lei si alzò e
corse, il tedesco l'inseguì, l'afferrò per i capelli e
l'uccise con la pistola". R. Giorgi, op. cit., p. 74.
"[Gilberto
Fabbri] Sul dietro della casa [di Caprara] c'era una
piccola cucina, e quando tutti vi furono ammassati le
donne cominciarono a gridare mentre i bambini si
aggrappavano alle gonne [...] ci fu un'esplosione e
Gilberto sentì delle schegge di metallo rovente
penetrargli in tutto il corpo. Cadde in mezzo agli altri
feriti [...] I tedeschi sparavano a chiunque appariva alla
finestra, e ben presto si formò uno strato di corpi alto
quanto il davanzale [...] col corpo sanguinante Gilberto
si nascose meglio che poté tra le viti e si accorse che a
qualche passo una bambina stava facendo come lui. Dal suo
nascondiglio vide che i tedeschi legarono la giovane madre
ad un albero, le misero il bambino in braccio e le
lanciarono delle granate finché tutti e due furono
ridotti a brandelli. Una donna anziana vestita di nero
corse fra i campi [...] il tedesco l'afferrò per i
capelli bianchi con la mano nuda, le girò lentamente la
testa verso di sé e le sparò due colpi sulla faccia.
[...] Gilberto guardò verso la casa e nel vano della
finestra vide apparire le sagome di due ragazzi, ma una
raffica li fece precipitare. Ora fuori della finestra
giacevano ammucchiati sei o sette corpi, come all'interno,
e dopo una quindicina di minuti dalla cucina non uscì più
nessuno. [...] Il ragazzo cercò la bambina che si era
nascosta nella vigna con lui, ma era già morta." J. Olsen, op. cit., pp. 197-198.
"Radunate
dalle case e da un rifugio e rinchiuse in cucina, 35
persone furono uccise col lancio di bombe a mano [...] La
cucina era quella di Dario Carboni, mi disse Bertuzzi, e
occupava l'area di
Caprara di Sopra dove ora i superstiti delle famiglie
Astrali (due ragazze salve sotto i cadaveri) e Iubini
hanno posto con amore, fra i detriti, due piccole croci
circondate da piante e da fiori [...]. Costanzina Magnani,
madre di Vittorina, e tre nipotini Moschetti, Bruna, Pia e
Mario, sfuggiti alla caccia dei soldati nascosti dentro
una fornace da calce in disuso, furono mortalmente colpiti
dall'esplosione di una granata caduta all'imbocco della
fornace". D. Zanini, op. cit., pp. 452-454.
"Le
sorelle Amalia e Bice Musolesi abitavano a Ca' Tura di
Ignano [...] si erano rifugiate da 45 giorni con le
rispettive famiglie in casa di don Ubaldo, come tanti
altri. Dopo il triste spettacolo della mattinata, quel
pomeriggio decisero di lasciare S. Martino. Amalia andò
verso casa, ma giunta a Caprara fu colpita da una granata
lei e la figlioletta Bruna che teneva in braccio; furono
sepolte nella buca della cannonata stessa". D. Zanini,
op. cit., p. 461.
"Il
comandante partigiano Guerrino Avoni vide a Caprara sedici
donne legate insieme (una di esse aveva con sé il
figlioletto di due mesi) uccise dalla sbirraglia tedesca
con bombe a mano". "Giornale dell'Emilia",
28 settembre 1951.
"L'ultimo
dei testimoni di Marzabotto che il Tribunale ha ritenuto
di dover ascoltare in questo processo è Armando
Moschetti, che vide bruciare le case di Caprara, e in una
di queste case scorse una sessantina di cadaveri, e
davanti alla porta due piccini - uno di due, l'altro di
quattro anni - ch'erano ancora vivi, ma già venivano
afferrati dalle fiamme. Corse verso di loro, e stava per
raccoglierli quando fu costretto alla fuga da colpi di
mitragliatrice". "Giornale dell'Emilia", 29
settembre 1951.
"Di
solito lui [Luigi Massa] faceva il tragitto dal Poggio [Comellini]
a Caprara andando da un pagliaio all'altro. Questi utili
punti di riferimento ora non c'erano più. Erano bruciati
anche gli stolli, e dentro i cerchi abbruciacchiati che
indicavano dove prima c'erano i pagliai, Luigi vide dei
corpi anneriti che sembravano tanti manichini messi lì
per terra.. Giunto in vista di Caprara, gli sembrò che
all'aspetto il villaggio fosse quasi intatto [...]. La
bottega di Luigi [sembrava la meno danneggiata ...]. Corse
freneticamente da una stanza all'altra e, dopo aver
constato che non c'erano né cadaveri né segni di
uccisioni, appoggiò la testa allo stipite [...]. Era
sicuro che fuori avrebbe sentito nell'aria puzzo di morte,
e aveva paura, ma in lui vinse la curiosità. Entrò in
fretta nella prima casa della fila. Apparteneva alla
famiglia Carboni, suoi buoni vicini e clienti, e da un
buco nel muro, dove alcune pietre erano cadute, vide i
segni dell'incendio. Entrò e guardò nella cucina, vide
un mucchio di morti bruciati: un'occhiata e scappò
via". J. Olsen, op. cit., p. 284.
"[Fabbri
Gilberto:] La mattina del 29/9/1944 decisi di rifugiarmi a
Caprara. Andai in un ricovero e trovai circa 50 persone,
composte da donne, ragazzi e bambini. Verso le ore
14,30-15 dello stesso giorno, tre tedeschi entrarono nel
ricovero; indossavano abiti mimetizzati e i loro elmetti
erano adornati di foglie. Essi ci ordinarono di lasciare
il ricovero e ci chiusero nella cucina della casa chiamata
Caprara. Essi chiusero le porte ed aprirono soltanto la
finestra della cucina e immediatamente dopo gettarono
nella cucina 4 bombe a mano tedesche ed una grande di
colore rosso. Ci fu una forte esplosione e molto fumo.
Immediatamente sentii un grande dolore alle gambe, ma non
di meno saltai fuori dalla finestra. Vidi tre tedeschi
entrare dalla porta della casa e mi rifugiai in un
cespuglio a 3-4 metri dalla finestra. Dopo poco, vidi due
donne scappare attraverso un campo vicino e sentii dei
colpi che credetti che fossero sparati dai tedeschi
accanto alla porta. Vidi le donne cadere a terra. Dopo che
ero sotto il cespuglio da un quarto d'ora, sentii parecchi
colpi seguiti da grida di donne: dopo ci fu silenzio.
Rimasi nascosto sotto il cespuglio l'intera notte del
29/9/1944". A. Cinti, op. cit., pp. 54-55.
"[Maria
Collina:] Dopo poche ore arrivò dinanzi al rifugio un
gruppo di 7 o 8 tedeschi. Essi ci fecero uscire fuori e
messici in fila ci tradussero in una delle case di Caprara.
Quivi i tedeschi lanciarono su di noi da una finestra e
dalla porta molte bombe a mano". A. Cinti, op. cit.,
pp. 55-56.
"[Avoni
Guerrino:] Vidi parte di ciò che accadde colà. Avevo un
cannocchiale. 16 donne italiane furono legate assieme in
fila con una lunga fune. Notai una donna con un bambino in
braccio. Successivamente mi informai nei riguardi della
donna ed appresi che questo bambino aveva due mesi. 1
tedeschi gettarono bombe a mano in mezzo a loro per
ucciderli". A. Cinti, op. cit., p. 56.
[Lanzarini
Primo:] La sera si recò al villaggio e osservò ciò che
era accaduto. "Vidi vari cadaveri e una bambina di
due anni e mezzo. La presi con me. Era ancora viva . La
mia sorellina di 9 mesi fu da me trovata 9 giorni dopo
questo massacro nei pressi della casa. Essa non recava
tracce di alcuna ferita. Sembrava fosse morta di fame e di
freddo". A. Cinti, op. cit., pp. 56-57.
"[Castelli
Carlo:] Durante l'eccidio di Caprara vidi inseguire una
donna che, fuori dall'abitato, cercava di scappare in
direzione della Valle di Setta. Il tedesco, di cui non
posso precisare il grado, la raggiunse, l'afferrò per i
capelli e le sparò con la pistola in faccia
uccidendola". A. Cinti, op. cit., p. 57.
"I
soldati saliti da Sperticano raggiunsero Caprara e
parteciparono a quella strage con gli altri saliti dal
Setta. Ma prima, lungo il tragitto, uccisero la famiglia
Tondi, di Castellino, che aveva -lasciato la casa
in cerca di un rifugio più sicuro, su nove componenti, si
salvò soltanto il padre, perché si era nascosto nel
fosso di Campedello. Egli raccontava che i suoi cari,
moglie e sette figli in età fra i 17 e i 3 anni, erano
stati sterminati nel bosco. Furono sepolti fra le vittime
di Caprara". D. Zanini, op. cit., p. 355.
"[Adelmo
Benini] Tra Caprara e Villa d'Ignavo, trovammo i cadaveri
di due donne incinte, entrambe sventrate". R. Giorgi,
op. cit., p. 67.
"Molta
gente di Caprara di Marzabotto viene rastrellata e
rinchiusa nella locale osteria, dove i nazisti la
massacrano con le bombe a mano e la distruggono con i
lanciafiamme. I cadaveri sono 107 di cui 24 bambini.
Cercano di salvarsi Vittorina Venturi e la madre, saltando
da una finestra. Invano: entrambe sono subito
falciate". R. Giorgi, op. cit. p. 69.
Gino
Calzolari abitante a San Martino durante la guerra, ora
residente alla Quercia (Marzabotto) ha confermato che la
cucina nella quale vennero rinchiusi i massacrati era
quella di Carboni, dietro l'osteria i cui ruderi sono i
primi che si incontrano salendo dalla strada che porta a
Casaglia. La testimonianza più dettagliata risulterebbe
allora quella riportata da D. Zanini a p. 452-454.
In
Comitato Regionale per le Onoranze ai Caduti di
Marzabotto, cit., il numero dei caduti per mano dei
nazifascisti a Caprara è 58.
Scheda storica n° 3: Il Poggio
"Questa
era una casa colonica divisa in due, cioè c'era
l'abitazione per gli animali e quella per le
persone". M. Janelli, op. cit., p. 165.
"Un
tempo era il podere più grande della parrocchia di
Casaglia, era sempre abitato da famiglie di quindici
persone. In un fondo come il Poggio, occorreva quasi un
mese per arare tutti i campi, tale lavoro veniva sempre
eseguito nel mese di agosto. Questo fondo a quei tempi era
dotato di molto bosco, che era l'unico combustibile per il
riscaldamento. In questo fondo i Lorenzini come gli
Stanzani raccoglievano circa duecento quintali di cereali
all'anno. Per il granoturco era necessario compiere una
sequenza di lavori che allora erano indispensabili. Si
seminava entro il mese di aprile in un terreno fresco e
soffice e ben concimato. La semina era regolata in file
distanti cinquanta centimetri una dall'altra, le granelle
circa venti centimetri di distanza. Quando il granturco
era grandicello si zappava, togliendoci le erbe
selvatiche; veniva poi raccolto alla fine di agosto".
M. Janelli, op. cit. pp. 165-170.
"Dal
cimitero [di Casaglia] è appena stata soccorsa, dopo tre
giorni di stenti, Artemisia Gatti, una vecchia mendicante
che viveva di elemosina e di preghiera in una casupola
accanto alla chiesa; ma anche lei non resiste a lungo e
spira al Poggio. Gino Lanzarini e Dante Migliori scavano
per lei una fossa e poi anche loro Vengono uccisi.
Artemisia scompare nel silenzio e nell'oscurità com'era
vissuta: il suo corpo non è stato ritrovato, il suo nome
non figura tra le vittime. Olsen racconta la sua lunga
agonia e poi dimentica di inserirla in elenco". D.
Zanini, op. cit., pp. 442-443.
"Peppino
Lorenzini disse dove aveva visto, disteso a terra,
Ildebrando Paselli; Bruno andò a raccogliere la salma del
fratello sotto il Poggio per seppellirla". D. Zanini,
op. cit., p. 529. "[Adelmo Benini] Arrivando nella
vigna del Poggio di Casaglia, notammo una piccola sagoma
in posa molto strana. Era un bimbo, di tre o quattro anni,
con un palo conficcato nel sedere e piantato nel terreno
che lo sosteneva, come uno spaventapasseri sempre sul
punto di piombare giù". R. Giorgi, op. cit., pp.
66-67.
"Qualche
centinaio di metri più avanti [rispetto al cimitero], giù
per la strada, c'era una delle migliori vigne della
montagna. Era sulla costa dopo il Poggio di Casaglia, il
podere dei Laffi, e più di una volta Adelmo [Benini] si
era fermato ad assaggiare quell'uva squisita. 1 tre uomini
vi arrivarono molto dopo mezzanotte e cominciarono a
percorrere i filari in cerca di qualche grappolo. [...] 1
tre ruspatori risalirono dai confini fino al centro della
vigna e dopo un po' ad Adelmo sembrò di distinguere nel
buio la sagoma di uno spaventapasseri [...] quello che
aveva davanti agli occhi era un ragazzo impalato a un
pezzo di legno alto circa un metro e ottanta [...]. Mentre
se ne tornavano su, passarono attraverso i resti di
Caprara e là, al margine di un castagneto, trovarono i
corpi di tre giovani donne legate agli alberi, coi piedi
sollevati da terra e i vestiti al di sopra della cintola,
nella posizione della crocefissione. Vicino c'erano i
resti di due donne incinte". J. Olsen, op. cit., pp. 278-279.
"Una
squadra formata da Elena [Ruggeri] e da tutti gli uomini
validi partì da Ca' Pudella per andare a cercare i
cadaveri [...] proprio dietro la casupola del becchino
Gatti, Elena trovò sua madre, colpita alle spalle [...].
Più avanti lungo la strada, vicino al Poggio,
s'imbatterono in una scena inspiegabile. Il corpo rugoso
di Artemisia Gatti giaceva come un mucchio di stracci
vicino a una buca mezza scavata attorno alla quale erano
distesi i cadaveri di quattro giovani. Fu solo la sera
tardi che i Ruggeri seppero come erano andate le cose.
Verso l'alba di quel lunedì mattina quattro partigiani in
fuga avevano udito la vecchia lamentarsi nel cimitero. La
stavano portando via quando la poveretta era morta. Allora
cominciarono a scavarle una fossa al Poggio, ma un
pattuglia di SS li aveva sorpresi e uccisi. I Ruggeri
passarono la maggior parte della giornata raccogliendo
cadaveri e seppellendoli dove si trovavano. Trovarono le
tre donne crocefisse a Caprara, il ragazzo impalato come
uno spaventapasseri nella vigna del Poggio e una dozzina
di altri corpi lungo la strada. Quando ebbero finito di
seppellire i morti sparsi qua e là tornarono al
cimitero e cominciarono a scavare una fossa comune per le
sei o sette dozzine di cadaveri ammucchiati contro la
cappella mortuaria". J. Olsen, op. cit., p. 286.
Gino
Calzolari residente a San Martino durante la guerra, ora
residente alla Quercia (Marzabotto) ha confermato il
ritrovamento al Poggio dei cadaveri della Gatti, di
Migliori e di Lanzarini.
In
Comitato Regionale per le Onoranze ai Caduti di
Marzabotto, cit., i caduti per mano dei nazifascisti al
Poggio di Casaglia sono 3.
Scheda
storica n° 8:
Chiesa di Casaglia
Comunità
già citata nell'elenco del Senato Bolognese del 1223, la
cui chiesa di S. Maria risultava nelle Decime del 1300 e
del 1378 sottoposta al plebanato di Panico. Alla fine del
1700 vi risultavano residenti 295 persone divise in 60
famiglie. Provincia di Bologna, op. cit., pp. 9-10.
A
metà ‘800 così viene descritta: "Quattrocento
individui formano il suo popolo, che obbedisce al
Municipio di Caprara, ed è subordinato al Giusdicente di
Bologna, e viene retta dal parroco Don Raimondo Taruffi,
il quale festeggia coi parrocchiani le glorie della
Vergine protettrice nel giorno quindici agosto. La chiesa
è benedetta nel nome dell'Assunzione di Maria, che è
rappresentata sull'altare maggiore in un magnifico quadro
della Sirani, dipinto a spese de' popolani nell'anno 1699.
La fabbrica sia nell'esteriore che nell'interno è bella a
vedersi, ed è di stile purgato d'architettura, quantunque
edificata nel 1660. Ha il battistero; e ciò è privilegio
donatole il 19 giugno 1685. E' pure fornita di begli
arredi e suppellettili, provveduti dalla pietà del suo
popolo che solo sostenne la spesa dell'intero edifizio,
come co' suoi denari soltanto fu nel 1684 innalzata la
nuova torre delle campane. La chiesa è a volta reale,
lunga all'interno 45 piedi, larga 17, ed alta 30, con due
cappelle ai lati (dedicata una al SS. Crocefisso e l'altra
alla Madonna del Rosario) ed ha il resto delle pareti
ripartito in arcate, sotto le quali invece di ancone e di
altari il Pranzini dipinse a fresco nell'anno 1801 gli
avvenimenti più celebri della vita di Maria. Altri
ristauri d'intonaco e di ornati a frescò furono fatti in
questo tempio nell'anno 1814, e l'odierno curato Sign.
Taruffi procurò nel 1843 di alzare il coperto sopra il
volto, lasciando fra questo e quello un grande spazio,
indispensabile nei casi di risarcimento; poi fé costruire
un nuovo altar maggiore di cotto, dipinto a mano, e riattò
la canonica". Le Chiese Parrocchiali, op. cit., p.28.
Così
ancora appare alla fine del secolo XIX: "Questa
chiesa è di libera collazione della Mensa Arcivescovile
di Bologna, come appare dai libri della s. visita. Detta
chiesa è posta quasi sulla superficie di un monte
dirupato e scosceso. L'anzidetta chiesa è voltata colla
faccia all'oriente, ha la sua croce di ferro sulla cima
della facciata, ha parimenti il suo piazzale davanti fatto
nell'anno 1900. Questa chiesa ha il cimitero fatto nel
1836 dal Municipio. La chiesa ha 4 campane del Brighenti e
sono collocate sopra l'annesso campanile, alto 44 metri,
fabbricato dal 1872 al 1886. La fabbrica interna della
chiesa fu restaurata nel 1869. Da una lapide in macigno
esistente nel cortile della chiesa stessa, risulta che
questa chiesa sia stata eretta dalla comunità nel 1665,
mentre già la parrocchia esisteva in allora nell'oratorio
attuale di S. Mamante, ed era parroco don Cesare Paselli e
fu condotta a termine nel 1685, mentre era parroco don
Giovanni Mingarelli". E inoltre: "La pala della
cappella maggiore di S. Maria di Casaglia è andata
distrutta nell'autunno '44, ma anche dai ruderi si può
intravedere quanto pregevole fosse l'insieme dell'abside,
e pari alla qualità dell'ornato doveva essere il dipinto
che costituiva il vertice prestigioso di una sequenza di
quattro ovali, dipinti a grezzo da Lorenzo Pranzini nella
parete di destra della chiesa, raffiguranti la natività
di Maria, l'annunciazione, la visitazione,
l'incoronazione: un vero ciclo mariologico".
Probabilmente nel 1904 venne collocata tra presbiterio e
campanile la piccola statua della Vergine. Oggi in luogo
della statuetta della B.V. Immacolata, andata distrutta,
è stata posta nel 1983 un'immagine della B.V. dell'ulivo,
opera dello scultore L. Nenzioni. Nel 1912 venne abbattuto
il "monticello che incombeva dalle pendici di Monte
Sole sulla facciata della chiesa e produceva infiltrazioni
d'acqua minacciando guai più seri". Venne inoltre
deviato il percorso stradale che conduceva dalla chiesa al
cimitero, posto cioè in piano di fianco alla nuova piazza
della chiesa. "Sistemate le adiacenze, si mise mano
all'interno della chiesa: sagrestia, battistero,
pavimentazione dell'aula assembleare". L. Gherardi,
op. cit., passim.
Nel
1933 vennero fatti nuovi lavori di restauro della chiesa
che terminarono nel 1936. "II lavoro di restauro si
protrasse per qualche anno perché la chiesa venne
rinnovata completamente, venne fatta la facciata nuova, ed
anche la canonica venne restaurata in sintonia con la
chiesa, il bel campanile di color rosso dava alla
costruzione una forma artistica e piacevole. L'interno era
stato pitturato artisticamente e tutte le immagini sacre
avevano assunto dei colori sublimi e pieni di spiritualità. Nella grande finestra sopra al portale dell'entrata
era stata pitturata l'Assunzione della Vergine al cielo.
Sul lato ovest di questo piazzale poco distante dalla
chiesa, c'era una piccola abitazione, ma tutta restaurata
anche quella. In questa casa ci abitavano due anziani
coniugi che di loro ricordo solo il cognome Gatti".
M. Janelli, op. cit., p. 179-180.
"Dalle
strade e dalla ferrovia salgono verso Casaglia donne,
bambini e vecchi spaventati. Si rifugiano nella chiesa
dove li accoglie il parroco, don Ubaldo Marchioni, che li
raduna attorno a sé e tenta di rincuorarli con la
preghiera. A un tratto la porta si spalanca e tutti
vengono cacciati fuori. Il prete è fulminato da una
raffica di mitra. Solo una povera donna non può uscire
perché paralizzata alle gambe: Vittoria Nanni. Farà
compagnia a don Marchioni, massacrata nel mezzo della
chiesa, mentre urla disperatamente e annaspa invano con le
braccia, inchiodata alla sua seggiola. Enrica Ansaloni e
Giovanni Betti sono riusciti non visti a rifugiarsi nel
campanile: sono scovati e massacrati sul posto. Gli altri
nell'angusto cimitero di montagna". R. Giorgi, op.
cit., p. 61.
"Una
squadra formata da Elena e da tutti gli uomini validi partì
da Ca' Pudella per andare a cercare i cadaveri. Davanti
all'altare della Chiesa di Casaglia trovarono disteso don
Ubaldo Marchioni, tutto annerito e con un piede
completamente bruciato. Nel campanile scoprirono la povera
paralitica Vittoria Nanni e altri due". J. Olsen, op. cit., p. 286.
"La
madre dell'Elena [Ruggeri], Maria Assunta Rocca detta
Teresa, corse sul sagrato e si diede a chiamare la figlia
ad alta voce, disperatamente, temendo di vederla
stramazzare a terra.. Invece i tedeschi uccisero lei, la
madre, lungo il declivio che scendeva nei campi, poco
oltre la casa dell'Artemisia, che era di fianco alla
canonica [...]. In chiesa c'era una povera ragazza
paralizzata, Vittoria Nanni, sfollata dalla casa America;
non poteva camminare speditamente, girava appoggiata ad
una sedia; i soldati la uccisero lì. Nel campanile
trovarono un uomo, Giovanni Betti, e gli fecero fare al
stessa fine [...]. Enrica Marescalchi, venne uccisa col
Betti nel campanile". D. Zanini, op. cit., pp.
432-433.
"Ora
Antonio [Tonelli], suo zio e suo fratello Mario erano
nascosti sul Monte Sole in un tratto di macchia proprio
sopra la chiesa di Casaglia [...]. Passò una pattuglia di
SS, poi ne passò un'altra e dalla chiesa giunse il rumore
di frequenti spari, e di tanto in tanto anche quello di
grida in tedesco. Quando non resse più, Antonio uscì dal
fossato e cominciò a correre giù per la strada verso la
chiesa [...]. Mentre trottava in direzione della chiesa,
poco mancò che non inciampasse nel corpo di un contadino
che conosceva, e accanto vide i cadaveri di altri due
uomini, uno dei quali gli sembrò quello di un medico
partigiano". J. Olsen, op. cit., p. 186.
Gino
Calzolari, residente a San Martino durante la guerra, oggi
residente alla Quercia (Marzabotto), ha confermato lo
svolgimento dei fatti in merito alla morte della madre di
Elena Ruggeri, di Artemisia Gatti e dei caduti nella
chiesa e nel cimitero di Casaglia.
In
Comitato Regionale per le Onoranze ai Caduti di
Marzabotto, cit., i caduti per mano dei nazifascisti nella
chiesa e nel cimitero di Casaglia sono 80.
Scheda
storica n° 10:
Cimitero di Casaglia
"Da
Casaglia proviene, nel 1061, un testimone di nome Giovanni
figlio del fu Pietro, che assiste alla donazione fatta dai
quattro figli di Bonando da Caprara, al monastero di S.
Bartolomeo di Musiano di una parte della chiesa di S.
Salvatore di Bedoleto con le sue pertinenze. Comunità già
citata nell'elenco del Senato Bolognese del 1223 la cui
chiesa di S. Maria risultava nelle decime del 1300 e del
1378 sottoposta al plebanato di Panico. Dal censimento
dell'Anglic i 28 fumanti di Caprara si presumono divisi
con questa località, mentre all'epoca del Calindri vi
risultavano 295 persone divise in 60 famiglie. La chiesa
fu riedificata verso il 1660 mentre il campanile fu eretto
nel 1648; ebbe il battistero nel 1685. Attualmente della
località non restano che i ruderi del cimitero, nella
cappella furono uccisi 80 civili dai tedeschi nel
1944". Provincia di Bologna, op. cit., pp. 9-10.
"[Elena
Ruggeri:] Dal nostro posto [io e mio cugino] vedevamo
dentro il cimitero. Dopo un quarto d'ora che li avevano
messi contro la cappella, aprirono il fuoco e gettarono
anche delle bombe a mano". R. Giorgi, op. cit., p.
64.
"[Lucia
Sabbioni:] Le donne che erano con me nel bosco, cui devo
la vita, furono trucidate, pochi giorni dopo in un rifugio
a Ca' Beguzzi. Il bimbo Tonelli morì anch'egli colpito da
una granata tedesca sotto Monte Sole, poco distante dal
cimitero di Casaglia". L. Bergonzini, op. cit., p.
313.
"Nel
cimitero di Casaglia Lidia Pirini, con un proiettile
conficcato nella coscia destra, non era stata soccorsa;
alla sera del secondo giorno decise di scendere lentamente
verso Cerpiano. Vittorio Tonelli, il bambino che voleva
rimanere coi suoi fratellini uccisi, lasciò anche lui il
cimitero e si avviò verso Vado ma fu raggiunto da una
cannonata che lo riportò in seno alla sua numerosa
famiglia distrutta". D. Zanini, op. cit., p. 440.
Gino
Calzolari, residente a San Martino durante la guerra, oggi
residente alla Quercia (Marzabotto), ha confermato lo
svolgimento dei fatti in merito alla morte della madre di
Elena Ruggeri, di Artemisia Gatti e dei caduti nella
chiesa e nel cimitero di Casaglia.
In
Comitato Regionale per le Onoranze ai Caduti di
Marzabotto, cit., i caduti per mano dei nazifascisti nella
chiesa e nel cimitero di Casaglia sono 80.
Scheda
storica n° 6: Cerpiano
A
metà dell'800 l'oratorio di Cerpiano è citato fra le
quattro grandi cappelle che si trovano nel circondario di
Casaglia (Brigadello, Dizzola, Cerpiano, Morazzo). Le
Chiese Parrocchiali, op. cit. p.28.
"Prima
della guerra in questo tavolato c'era un fondo agricolo,
un palazzo con l'oratorio e un immenso prato con grandi
alberi di querce. Il terreno adibito al fondo agricolo era
tutto pianeggiante, con sopra ampi vigneti costruiti con
sistemi diversi dalle solite vigne. Ai lati dei filari
c'erano alti pali di cemento, in cima ai pali c'erano fili
di ferro tirati da un capo all'altro della fila. 1 tralci
delle viti venivano distesi lungo i fili formando un lungo
pergolato. Con tale sistema i grappoli d'uva crescevano
tutti in fila ed esposti al sole. Quando l'uva era matura
diventava gialla e dorata da suscitare la meraviglia dei
passanti j... ]. Ai lati del vigneto c'erano alberi di
ciliegie che quando veniva primavera erano bianchi di
fiori che insieme al prato fiorito davano l'impressione di
entrare in un ampio giardino". M. Janelli, op. cit.
pp. 113-114.
Così
appare prima della guerra: "A veder i ruderi, non si
immagina cosa è stato Cerpiano. Nel verde tavolato
agricolo c'era il Palazzo, con l'oratorio, la scuola, la
casa colonica. Il Palazzo era un robusto edificio in
pietrame a quattro piani, con undici grandi vani, solai in
putrelle e volterrane, tetto con armatura in legno
tavellonato e manto di coppi [...]. Annesso era l'oratorio
dedicato agli Angeli Custodi, lungo la strada comunale
Casaglia-Murazze, comune di Monzuno, via della Chiesina n.
566. La facciata di questo oratorio guardava a ponente.
Sopra la porta era scolpita l'immagine dell'Angelo
Custode. Si accedeva da due ingressi: imo per gli uomini,
l'altro per le donne. 1 segnali acustici rituali venivano
da una campanella sopra la tettoia di casa Serra. Davanti,
un bel piazzale; sulla cima la croce. L'aula rettangolare,
con eleganti volte e lesene, misurava 7 metri per 3.
Dietro l'altare con due scaffalature e predella di pietra
si elevava l'ancona raffigurante l'Arcangelo Raffaele. Ai
lati, due poggiampolla di pietra, tutt'intorno, la Via
Crucis; e sulla soglia, l'acquasantiera". L. Gherardi,
op. cit. p. 68.
"Il
palazzo era di forma quadrata alto tre piani; conteneva
molti vani dove nella stagione estiva gruppetti di
cittadini venivano a trascorrere le vacanze. Nel
sotterraneo del palazzo, oltre ad esserci delle buone
cantine, c'era anche la famosa conserva della neve, era un
vano molto ampio con una piccola porticina e un'apertura
nel soffitto. Nella stagione invernale, quando cadeva
molta neve, gli abitanti di questo luogo si radunavano in
gruppi, poi con badili e pale, sceglievano la neve pulita
e la mettevano giù per l'apertura della cisterna. A volte
la riempivano tutta. La neve col peso si pigiava da sola,
formando un blocco di ghiaccio. Quando veniva la stagione
del caldo, si scendeva la scaletta, si apriva la piccola
porta e ci si trovava davanti alla montagna di
ghiaccio". M Janelli, op. cit. pp. 121-122.
"Nell'oratorio
di Cerpiano ammucchiano 49 persone [...]. Segue subito un
primo lancio di bombe che assassina trenta persone. Poi le
SS decidono di riposare e a lungo gozzovigliano fuori
dall'oratorio. 1 lamenti di una ferita agonizzante li
disturbano. E' la signora Nina Frabboni Fabbris di Bologna
che un nazista si affretta a finire. Emilia Tossani e il
vecchio Pietro Orlandi con la nipote tentano la fuga:
vanno poco oltre la soglia". R. Giorgi, op. cit., p.
91.
"Prima
che qualcuno potesse fermarlo, il vecchio era già quasi
fuori della porta, con Sirio al fianco. Ci fu una raffica
e l'uomo e il ragazzo caddero sulla soglia tenendosi per
mano [...]. Amelia Tossani, aprì lentamente la porticina
laterale della cappella. Una raffica di mitra le lacerò
il petto e la donna cadde a terra morta, ostruendo la
porta". J. Olsen, op. cit., pp. 184-185.
"Il
cadavere putrefatto del vecchio Gino Cincinnati fu
rinvenuto coperto di mosche e di vermi sotto le macerie
del palazzo di Cerpiano: evidentemente quando i tedeschi
avevano fatto uscire tutti, lui si era nascosto ed era
rimasto incastrato fra le travi cadute durante un
bombardamento alleato". J. Olsen, op. cit., p. 334.
"[Antonietta
Benni:] La mattina del 29/9/1944, cominciammo a sentire il
crepitio delle mitragliatrici e avemmo il triste
presentimento che si trattasse di un rastrellamento. La
nostra paura crebbe quando cominciammo a vedere case in
fiamme e a sentire vicini gli spari [...] ci intimarono di
entrare nell'oratorio attiguo alla casa [...] uscirono
dalla chiesa chiudendoci dentro [...] cominciarono a
buttare dentro bombe da ambo le parti e dalla finestra
[...] rimanemmo in quel triste luogo tutto il giorno 29,
fino alla sera del 30, senza poter fuggire perché i
tedeschi ci facevano la guardia [...] Quel povero vecchio
che ho sopra citato fece appena l'atto di uscire che fu
freddato sulla soglia; il vecchio aveva per mano un suo
nipotino che anche quello rimase cadavere. Dopo poco una
signora si lamentava forte perché oppressa da forti
dolori; forse quello stesso soldato che poco prima aveva
ucciso il vecchio rientrò e con un colpo di fucile uccise
la signora facendo una cinica risata come per dire: ora
non ti lamenterai più [...]. Nel pomeriggio del sabato,
30 settembre, visto che non eravamo tutti morti,
rientrarono in chiesa e ci dissero: "Fra 20 minuti
tutti kaput!" Non tardai molto a sentire che
ricaricavano i fucili ricominciando a sparare. La
sparatoria durò pochi minuti e io, ancora viva, ero
sempre in attesa della morte perché temevo che
ricominciassero a sparare. Invece cessati gli spari,
passarono in mezzo ai morti depredandoli di quanto avevano
di prezioso e naturalmente passarono anche vicino a me. In
quel momento, per timore si accorgessero che ero ancora
viva, trattenni il respiro". A. Cinti, op. cit., pp.
50-52.
In
Comitato Regionale per le Onoranze ai Caduti di
Marzabotto, cit., i caduti per mano dei nazifascisti a
Cerpiano sono 47.
Scheda
storica n° 7: Brigadello
"Centro
di antica origine, Brigadello fu soggetto ai conti di
Panico che nel Duecento vi possedevano un castello.
Censito dal Cardinal Anglic vi si trovano nel 1371 cinque
fumanti. Ancora nel 1385 era comune separato da Vado, vi
abitavano allora sette famiglie, due delle quali
coltivavano terreni appartenenti ai conti delle Bedolete;
le abitazioni sorgevano nelle località Archiano, Poggio,
Pibigo, Cornio, La Strada. La zona è attualmente
spopolata a causa delle distruzioni belliche che hanno
risparmiato soltanto pochissimi edifici. 1 ruderi posti in
questa località presentano un paramento murario databile
al Trecento". Provincia di Bologna, op. cit., p. 6.
Scheda storica n° 8: San Giovanni di Sotto
"La
testimonianza più incisiva sull'eccidio di San Giovanni
di Sotto sembra quella che Margherita Janelli raccolse
dalla bocca di Malvina [Stefanelli]: "quella brutta
mattina di fine settembre qualcuno riferì di avere
sentito dire che i nazisti uccidevano tutti. Eravamo
smarriti, non sapevamo da quale parte andare. Qualcuno ci
invitò nel rifugio a pregare, perché fra la gente c'era
a anche Suor Maria Fiori. Mentre una parte raggiunse il
rifugio, poco lontano di qui io vidi i nazisti sbucare
[...]. Io mi avviai nel bosco e una figlia (Paolina) mi
seguì; invece l'altra (Genoveffa) con Pietro mio marito
andò con gli altri. 1 nazisti li uccisero tutti davanti
al rifugio [...]". L. Gherardi, op. cit., p. 126.
"Quarantasette
persone, tra cui dodici bimbi e due suore, cercarono
scampo in un rifugio di San Giovanni. Trovarono la morte
più orrenda". R. Giorgi, op. cit., p. 75.
"Alle
7.00 circa del 29 settembre 44 ero in piedi fuori della
mia casa quando vidi venti soldati tedeschi avvicinarsi
[...] e andai nei boschi lì vicini [...]. Ritornai a casa
mia il 1 Ottobre 44 e vidi molti corpi di uomini, donne e
bambini sul bordo della strada vicino a casa [...]".
T Stefanelli Malvina in B. Magni (a cura di), op. cit., p.
79.
"I1
29 settembre, quando ritornarono [i tedeschi], giunsero
qui poco prima delle 11, provenienti dalla via che sale
dal Casoncello [...]. Gli uomini si diedero subito alla
fuga. Ildebrando Paselli scappò verso la montagna [...]
fu visto da lontano e colpito a morte quando stava per
raggiungere il Poggio. [...] Prima che arrivassero i
soldati, gli altri che si trovavano nelle due case si
raccolsero ammucchiati dentro un rifugio [...] irruppero i
tedeschi e li fecero uscire dal rifugio radunandoli nel
cortile davanti alla stalla di S. Giovanni di Sotto,
nell'area destinata a raccogliere il letame [...]. L'aia
davanti alla stalla era un cimitero di morti, un groviglio
di cadaveri[ ...]. Maria Sandri era andata a morire un po'
oltre, vicino alla teggia, che fu poi incendiata [...]. Il
padre, Mario Fiori, trovò la bambina più piccola, Lea di
due anni e mezzo, un po' distante dai cadaveri [...].
Mario Fiori trovò sua moglie, Maria Giovannetti, in
disparte [...] era caduta vicino alla porta della
stalla". D. Zanini, op. cit., pp. 445-448.
"Alle
7.00 circa del 29 Settembre 44, vidi parecchie case che
bruciavano nei dintorni. Partii con mio cognato Sandri
Gaetano e andammo a nasconderci nei boschi, lasciando la
mia famiglia in casa.
Ritornai
il 2 Ottobre 44 e trovai la mia casa bruciata e
tutt'intorno all'esterno circa quaranta persone, fra
uomini, donne e bambini, tutti morti, all'apparenza erano
stati fucilati". T Fiori Mario, in B. Magni (a cura
di), op. cit., p. 77.
"[Fiori
Gerardo, scappa la mattina del 29 settembre 1944:] Tornai
a casa la mattina del 2 ottobre successivo, e vidi che
l'intera mia famiglia era stata uccisa ... preciso che la
mia famiglia non venne uccisa nella casa posta a S.
Giovanni di Sopra, ma nelle contrade di S. Giovanni di
Sotto, ove i tedeschi avevano raccolto tutte le persone
che poi uccisero". A. Cinti, op. cit., p. 60.
"[Nadalini
Luigi:]'Poiché mi trovavo a circa 40 metri di distanza,
potei vedere un tedesco che piazzava una mitragliatrice in
terra e che apriva il fuoco sulla gente che era
raggruppata presso un muro". A. Cinti, op. cit., p.
61.
"[Stefanelli
Malvina:] I tedeschi fecero uscire dal ricovero tutte le
persone ivi rifugiate, le tradussero a S. Giovanni di
Sotto, nei pressi della mia casa e le uccisero con
raffiche di mitra. Le vittime, come ho detto, furono 46 o
47. La Stefanelli ebbe pure il marito di 70 anni ucciso a
circa 30 metri dalla casa". A. Cinti, op. cit., pp.
61-62.
[Sandri
Gaetano:] Si nascose, e, tornando a S. Giovanni di Sotto,
trovò i cadaveri di tutti coloro che, essendo lì di
casa, erano andati in un rifugio, ammassati contro il muro
della casa. "Erano circa 37 o 38 e tra questi anche i
miei familiari - narra egli - cioè la moglie e tre figli.
Poco distante vi erano sul viottolo altri nove cadaveri
che si presentavano non ammucchiati uno sull'altro. Più
distante ancora altri due. Ho l'impressione che questi
ultimi siano stati colpiti mentre non erano radunati come
prima, cioè mentre tentavano forse una fuga. In totale i
morti erano 49". A. Cinti, op. cit., p. 62.
"Giuseppe
Lorenzini, di trentacinque anni, era nascosto sulla
montagna da diverse ore, da quando cioè era stato
svegliato nella sua abitazione di Casoncello dal rumore
delle sparatorie [...]. Aveva appena fatto in tempo a
saltar giù da una finestra dietro la casa e a distendersi
in un fosso, che una pattuglia di SS era arrivata alla
porta e aveva buttato fuori tutti quelli che erano dentro:
sua moglie, i suoi due figli piccoli e nove o dieci altre
persone tutti suoi parenti. Poi i tedeschi avevano dato
fuoco all'edificio e avevano incolonnato i suoi cari
facendoli marciare verso il podere di San Giovanni. Ora
lui era su tra i cespugli, aveva davanti campi di grano,
ma c'era una collinetta che gli impediva di vedere San
Giovanni [...] vide che [ i tedeschi] si stavano
divertendo a dare la caccia a un vecchio lungo il
sentiero. Mentre uno di loro lo braccava, un altro venne
per tagliarli la strada, e Giuseppe con terrore si rese
conto che le SS stavano avvicinandosi al suo nascondiglio
[...]. Allora vide uno dei tedeschi colpire il vecchio col
calcio del mitra con tale forza da farlo volare via.
Mentre il poveretto a terra si lamentava, i due gli
riempirono a turno la testa di pallottole. Poi si
diressero alla volta di San Giovanni". J. Olsen, op. cit., p. 193.
"Alfredo
Comellini, uno dei proprietari del grosso podere di San
Giovanni, era anche lui quella mattina tra i cespugli
sotto la pioggia, mentre si udivano spari da ogni parte.
Per un attimo sperò che i nazisti trascurassero il suo
podere, ma non aveva fatto a tempo a pensarlo che vide due
SS col mitra sbucare dal bosco dietro la stalla. Mentre
egli si prendeva le labbra con le dita per non gridare, i
due si avvicinarono a suo cugino cieco, Ildebrando Paselli
e con un'unica raffica lo stesero. Altri due uomini,
Edoardo Castagnari e Pietro Paselli, lo zio di Alfredo,
udirono gli spari e corsero a sciogliere le bestie prima
che i tedeschi dessero fuoco alla stalla, ma anche loro
furono subito uccisi. Poi sopraggiunsero altri soldati che
si divisero in gruppi per circondare il podere e bloccare
la gente che c'era dentro. Dai tre grossi edifici venne
fatta uscire una dozzina di persone tutte con le mani in
alto. Varie altre dozzine furono stanate dal rifugio
antiaereo sul fianco del monte, e altre otto o dieci
persone vennero condotte sul posto dai soldati. Tranne
alcuni sfollati, Alfredo li riconobbe tutti. Dopo averli
riuniti - ad Alfredo sembrò che fossero quarantacinque o
cinquanta - le SS li fecero mettere davanti alla
concimaia, con i bambini in prima fila, e piazzarono tre
mitragliatrici pesanti. Quando cominciò la sparatoria
Alfredo si girò dall'altra parte e si tappò le orecchie.
Gli sembrò che il fuoco durasse senza interruzione per un
quarto d'ora. Svanita l'ultima eco si fece coraggio e
guardò: sulla concimaia giaceva immobile una massa di
corpi". J. Olsen, op. cit., p. 194.
Paselli
Pietro, nipote di Malvina Stefanelli, oggi residente a San
Giovanni di Sotto, ha confermato che l'eccidio avvenne
contro il muro della concimaia, oggi legnaia e che al
tempo stesso alcuni furono uccisi mentre tentavano di
scappare.
In
Comitato Regionale per le Onoranze ai Caduti di
Marzabotto, cit., il numero dei caduti per mano dei
nazifascisti a San Giovanni di Sotto è 51.
Scheda
storica n° 9: Chiesa e cimitero di San Martino
L'esistenza
di questa località, sia pure sicuramente solo come sede
di una pieve, è attestata nel 831 e nel 851; nel primo
testo si ricorda un confinante di un terreno con queste
parole: ab uno latere Sancti Martini presso terre
situate a Mugnano, in destra Reno; nel secondo si
afferma che si sono vendute varie terre, fra cui Sirano,
Sibano e Bezano, vel ubi (sic) intra pleve S. Martini
que vocatur Rucensi. Una pieve di tale nome situata
fra le montagne fra Reno e Setta non è ricordata in altre
occasioni, neppure negli elenchi ecclesiastici del XIV
sec., ma data la coincidenza del nome in queste due carte
vicine cronologicamente, possiamo affermare che vi
esistesse, con buona probabilità, almeno nel IX sec..
Probabilmente è da riconoscersi in questa località il Sancto
Martino da cui proviene Bernardo che detiene beni
nella montagna intorno a Camugnano e che vengono venduti
dai proprietari alla ciesa di S. Maria di Montepiano nel
1153. L'identificazione è permessa dal fatto che la
moglie di Bernardo è figlia di Rodolfo de arce
Sanguineta, che sorge in sinistra del Reno a pochi
chilometri da S. Martino. La chiesa che è menzionata
nelle decime del 1300, allora suffraganea della Pieve di
Panico, è stata distrutta durante l'ultima guerra; nulla
si intravede salvo delle macerie ed un concio con
decorazioni a fogliame, murato in una casa colonica
edificata nei pressi". Provincia di Bologna, op.
cit., p. 11.
Così
viene descritta a metà ‘800: "La sua origine è
ignota affatto; e le sue poche e confuse memorie che si
trovano nel suo archivio ci nhostrano bensì remota la sua
esistenza, e come più volte venisse rialzata dai
fondamenti per cura dei popolani, i quali avevano il
diritto di presentare il paroco, ma non si conosce l'epoca
della sua fondazione, né quella dei suoi mutamenti e né
tantopoco la sua forma e grandezza. L'odierna sua eleganza
non risale che all'anno 1725, in cui l'arciprete piisssimo
don Gian Pellegrino Demaria fece sagrifizio de' suoi averi
per ampliarla e per ridurla in volto con eccellente metodo
di architettura. Ne' di ciò pago, alzò anche la torre
delle campane e vi collocò un orologio; acquistò il
battistero di squisito marmo veronese, poi provvide la
sagrestia di ricche suppellettili e di magnifici arredi.
L'interno della chiesa è d'ordine jonico; ha una
lunghezza di piedi 53 sopra 19 di larghezza, ed è alta
piedi 22 e mezzo. Un arco maestoso che poggia su due
colonne dipinte a mano introduce nel presbiterio, ove fu
posto nel 1807 il bellissimo altare di legno tolto dalla
chiesa del Carobio di Bologna. Sopra il coro è il quadro
del Titolare dipinto dal Giusti, cui fa meraviglioso
contorno l'ornato del bolognese Venturoli; e dalla parte
del Vangelo avvi la cantoria con organo antico del
Bresciani e molte Ss. Reliquie. Discendendo dal
presbiterio si vedono due cappelle laterali, una dedicata
alla B.V. del Rosario, l'altra a S. Vincenzo Ferreri,
entrambe benissimo architettate, ma che nulla contengono
di notabile. Bella è finalmente la canonica che devesi
alle cure e generosità dell'arciprete don Gian Pellegrino
Paselli; e grande e decorosa la sagrestia fabbricata nel
1828 dall'arciprete Paolo Musiani". Le Chiese
Parrocchiali, op. cit., pp.42-43.
Ancora
alla fine dell'800 la chiesa di San Martino offriva
"l'immagine architettonica quale apparve dopo il
restauro del 1725 ad iniziativa di don Gian Pellegrino De
Maria". L. Gherardi, op. cit., p. 27.
"La
maggior parte dei terreni lì attorno era di proprietà
della curia, quindi anziché col padrone come gli altri
contadini della zona, quelli di San Martino spartivano i
raccolti con il prete". J. Olsen, op. cit. p. 41.
"La
piccola frazione [di San Martino]era composta di alcune
stalle e annessi e di una casa colonica a tre piani dove
vivevano ammassati i ventidue componenti delle varie
famiglie. Anche il pianerottolo del caseggiato era adibito
a stalle; sopra c'erano le cucine, e all'ultimo piano le
camere da letto. L'edificio, costruito con la pietra
locale, era rivestito di un intonaco rosa pallido,
sgretolato e sfaldato; il tetto era di embrici e tegole.
Davanti alla casa colonica c'era un grande piazzale
acciottolato, che serviva da luogo di ritrovo, cortile e
campo da bocce. In fondo alla strada c'era la chiesa,
anch'essa di pietra intonacata, su cui si alzava un
campanile grazioso e snello". J.
Olsen, cit., p. 42.
"[Guido
Tordi] Presso il cimitero e la località di S. Martino
trovammo parecchi morti, massacrati e disseminati lungo il
nostro cammino". R. Giorgi, op. cit., p. 59.
"[Giuseppe
Lorenzini:] Il giorno dopo, a S. Martino, vidi lontano un
gruppo di gente, tutti donne e bambini, con un solo uomo
in mezzo con una gamba offesa, sparpagliarsi per i campi a
branco, senza una direzione precisa. Sentii dei colpi, poi
i nazisti li circondarono e li raggrupparono. Fecero
presto, ve lo dico io, picchiavano sulle dita e sulle
unghie delle mani e dei piedi con calci dei fucili. Li
portarono davanti alla porta della nostra casa, dove li
fecero ammucchiare e li massacrarono tutti con le
mitraglie. Poi, uno per uno, gli diedero un colpo di
fucile alla nuca. Tornarono ad ammucchiarli, perché nel
morire s'erano un poco dispersi, spinsero sul posto un
carro di fascine, in modo da coprire tutti i cadaveri,
fuori non spuntava neppure un piede, poi diedero fuoco.
Inutile dire che anche le case furono tutte
bruciate". R. Giorgi, op. cit., p.'76.
"[Duilio
Paselli:] Passò una prima squadra di nazisti, il giorno
29, e non fecero nulla; pensammo che anche questa volta ce
la saremmo cavata con la paura. Invece il 30 arrivò una
seconda squadra: presero tutti quelli che poterono, li
misero contro la case dei contadini del parroco e li
falciarono con le mitraglie. Poi bruciarono con le fascine
e con dell'altra roba che avevano loro". R. Giorgi,
op. cit., p. 77.
"[Guerrino
Avoni:] Quando la sera del 29 settembre, quelli di noi
ancora in vita passarono S. Martino, tutto era intatto. Di
ritorno la sera del 30, per la stessa località vedemmo in
lontananza bagliori di incendi davanti alla chiesa, sul
piazzale che serviva da aia [...]. Inoltrandomi sull'aia,
mi si presentò una lunga riga di corpi irrigiditi,
crivellati di colpi: erano 46, tutte donne, stese sul
terreno fianco a fianco [...] si seppe in seguito che
s'erano rifugiate in chiesa a pregare, e i nazisti le
avevano di lì strappate e fucilate sull'aia". R.
Giorgi, op. cit., p. 78.
"[Giuseppe
Lorenzini] Guardando attraverso un campo scoperto da una
distanza di trecento metri, vide una pattuglia di venti o
trenta SS irrompere sul piazzale della chiesa. Una di esse
battè col calcio del fucile contro la porta e ne uscì
una marea di gente. Notò con costernazione che la gente
di San Martino cercava di darsela a gambe sciamando
attraverso i campi in tutte le direzioni, ma i tedeschi
avevano formato un anello tutt'attorno. Dopo un succedersi
terrificante di urla, di grida e di centinaia di raffiche
di mitra sparate in aria, le SS riuscirono a riunire tutti
sul piazzale della casa colonica. Giuseppe sentì degli
spari sporadici e gli sembrò che di tanto in tanto
qualcuno della folla si azzuffasse coi tedeschi, ma nel
giro di pochi minuti tutti - saranno
stati quattro o cinque dozzine - finirono allineati
contro il muro della casa colonica. Le mitragliatrici
cominciarono subito a lavorare e, quando Giuseppe osò
guardare di nuovo, alcune SS camminavano lungo i corpi
distesi sparando con la pistola ai sopravvissuti [...].
Guerrino [Avoni] con tre o quattro uomini scese in
ricognizione nel villaggio dove avevano tanti amici, e
vide che non c'erano tedeschi in giro. Fece un cenno anche
agli altri e tutti insieme entrarono nel piccolo abitato.
Sulla facciata della chiesa lessero una grande scritta:
"questo è un ammonimento per gli antinazisti e
antifascisti". Alcuni passi più avanti trovarono un
mucchio di corpi semicarbonizzati, che sembravano quasi
tutti donne e bambini. Per quanto poterono capire, erano
quarantacinque o quarantasei persone". J. Olsen, op. cit., pp.
234-236.
"[Angelo
Bertuzzi] Giunto in vista di San Martino, notò che c'era
stato un incendio, più che un odore di fumo s'era
lasciato dietro come un puzzo di rifiuti. Passando davanti
alla casa colonica in rovina gli sembrò di vedere un
braccio che penzolava da una finestra e più in giù lungo
la strada s'imbattè in diversi cadaveri in
decomposizione. Oltrepassata la curva, proseguendo verso
la chiesa vide perfettamente allineati in fondo alla
piazza i quaranta o cinquanta corpi mezzi bruciati.
Davanti ai cadaveri era stato messo un grande
cartello". J. Olsen, op. cit., p. 294.
"[Angelo
Bertuzzi dopo la guerra] Non andò più lontano della sua
solita prima tappa: San Martino. Vide cadaveri disseminati
lungo il sentiero e, superato il boschetto
abbrucciacchiato della collinetta di San Martino, si fermò
e aguzzò gli occhi. Davanti a sé, dove avrebbero dovuto
esserci una chiesa, un villaggio, diverse grandi stalle e
dei pagliai non c'era più niente. Tutto era stato
spianato. Gli unici resti di ciò che un tempo era stato
San Martino erano un fonte battesimale rovesciato in un
fosso, alcuni mucchi di pietre e avanzi di muro del
cimitero". J. Olsen, op. cit., p. 331.
"Pochi
giorni dopo il loro rientro a Sperticano bussò alla porta
una vecchia dicendo di avere sentito dire che vicino al
cimitero di San Martino c'era il cadavere di un prete.
Luigi Fornasini corse subito sulla montagna e in effetti
trovò che tra i cespugli dietro il muro di fondo del
cimitero c'erano dei cadaveri. Uno di essi era quello di
un certo Moschetti, un vecchio di sessantasette anni,
invalido della prima guerra mondiale. Le sue grucce erano
appoggiate contro il muro del camposanto. Accanto c'era il
corpo di un prete con vicino il proprio teschio". J. Olsen, op. cit., p. 334.
"[Giuseppe
Lorenzini:] 'li portarono proprio davanti alla porta della
nostra casa, dove li fecero ammucchiare e subito li
massacrarono [...] spinsero sul posto un carro di fascine
che rovesciarono sopra i morti [...] poi diedero
fuoco". L. Bergonzini, op. cit., p. 318.
"[Duilio
Paselli:] li misero contro la casa del Parroco di San
Martino e li fucilarono con le mitraglie, poi bruciarono i
corpi". L. Bergonzini, op. cit., p. 315.
"Il
30 settembre i soldati del 105 regg. Flak, di stanza lungo
la Venola, ritornarono a Sperticano, salirono a S. Martino
verso mezzogiorno, fecero uscire dalle case del parroco e
del contadino tutte le persone che ancora vi si trovavano,
e compirono la strage che avevano risparmiato il giorno
prima. Mi dice Peppino Lorenzini: 'Da lontano-vidi i
tedeschi che ammassavano la gente contro la nostra casa,
li uccisero tutti, poi da una massa di fascine ammucchiate
sull'aia ne presero da buttare sopra i cadaveri e diedero
fuoco. Quando andai ad aiutare altri a seppellire,
raccogliemmo soltanto delle ossa. Nel cimitero di S.
Martino non fu ucciso nessuno'. Elena Ruggeri mi raccontò
questa versione, confermata da Duilio Paselli: 'In quel
giorno Dante Paselli uscì dal bosco dov'era nascosto per
andare a vedere i suoi che erano nella chiesa di S.
Martino; incontrò sua moglie, Anna Naldi (due sposi
diciottenni), davanti alla chiesa mentre vi giungevano da
altra parte anche i soldati, e lui, sospettato di essere
partigiano, venne ucciso lì davanti alla moglie. Questa
come impazzita, cominciò ad urlare disperatamente e andò
contro i tedeschi coi pugni chiusi e con parole di fuoco.
Lei, il suo bimbo Franco di 40 giorni e tutti gli altri
furono uccisi per quello'". D. Zanini, op. cot., pp.
461- 462.
"[Ettore
Benini:] In prossimità S. Martino vidi un gruppo di
tedeschi giungere a un casolare chiamato 'Casadotto', ove
abitavano tre famiglie. Fecero uscire tutte le persone che
vi si trovavano e le uccisero con raffiche di mitra, dando
poi fuoco al fabbricato. Subito dopo, lo stesso gruppo di
tedeschi ammazzò altre persone che si erano nascoste nel
rifugio posto nelle immediate vicinanze della casa
stessa". A. Cinti, op. cit., p. 66.
Gino
Calzolari, residente a San Martino durante la guerra, oggi
residente alla Quercia (Marzabotto), ha confermato che la
casa contro la quale vennero allineati i massacrati era
quella dei Lanzarini, i cui ruderi sono quelli oggi in
corrispondenza della lapide posta dalla Chiesa. Ha
confermato anche il ritrovamento dei cadaveri di Don
Giovanni Fornasini e di Moschetti dietro il cimitero,
infine il modo in cui vennero uccisi la Naldi e il figlio.
In
Comitato Regionale per le Onoranze ai Caduti di
Marzabotto, cit., il numero dei caduti per mano dei
nazifascisti a San Martino è 57.
Scheda
storica n° 10: Pozza Rossa
"Da
una settimana don Casagrande aveva lasciato la sua casa e
la sua chiesetta della Quercia, sotto gli archi del ponte
della ferrovia Direttissima, e aveva raggiunto la sua
famiglia, già sfollata, presso i Luccarini nella casa
delle Calvane a S. Martino. Qui sperava di essere fuori
dai rischi e di restare in pace. Ma la mattina del 29
settembre, quando i tedeschi poco lontano cominciarono ad
uccidere gente e a bruciar case, don Ferdinando dovette
sollecitamente abbandonare le Calvane, seguito dai
Luccarini che si fermarono a S. Martino, e dai suoi, coi
quali, passando accanto al cimitero, raggiunse un rifugio
scavato nel castagneto sul versante del Reno. 1 soldati
che il 30 settembre uccisero tutti i civili anche a S.
Martino, non si avventurarono nel bosco, dove la famiglia
Casagrande trascorse alcuni giorni, protetta dal rifugio
[...]. Il 9 ottobre, dopo dieci giorni di rifugio e di
fame, di freddo e di rischio, don Ferdinando uscì per
andare al comando tedesco e chiedere il permesso di
trasferirsi altrove. Lo seguì la sorella Giulia. Non
fecero più ritorno. Il comando militare era alloggiato
probabilmente nella canonica di S. Martino. Non si sa se i
due fratelli lo raggiunsero. Caddero poco lontano, forse
lo stesso giorno, sulla via che porta alle Scope, dove
furono visti alcuni giorni dopo [...]. I corpi di don
Casagrande e della sorella Giulia rimasero abbandonati
fino alla primavera successiva sulla via campestre nella
località che gli abitanti di S. Martino chiamavano 'pozza
rossa' a motivo dell'acqua che ristagnava spesso la centro
della via [...]. Armando Monari passò dalla 'pozza rossa'
con un amico il 4 dicembre e vide don Ferdinando e la
sorella Giulia stesi sulla via. Anche altri li videro,
come i Fantini di Rioveggio che, per non affondare nella
melma, dovettero spostare le due salme a lato della via.
Poi altri, forse i soldati sudafricani, per liberare il
passaggio tolsero dalla via i due corpi rovesciandoli
lungo il pendio laterale [...]. Don Settimio Marconi
descrive nel suo diario l'episodio: "[ ...] trucidati
ambedue dai tedeschi nella prima quindicina di ottobre
1944 e gettati in un piccolo burrone distante poco più di
300 metri dalla Chiesa di S. Martino nella strada che va
alla Steccola". D. Zanini, op. cit., pp. 544-546.
Gino
Calzolari, residente a San Martino durante la guerra, ora
residente alla Quercia (Marzabotto), ha confermato che il
burrone nel quale i due corpi furono ritrovati è quello
sottostante la lapide posta in località Pozza Rossa che
li ricorda.
Scheda
storica n° 11: Monte Caprara
"Chiesa già citata nelle
decime del 1300 ed in quelle del 1378; in quest'ultime vi si
trova la dicitura di S. Michele del Castello di Caprara. Il
castello dovette esistere nel Duecento ed era in possesso
dei conti di Caprara, forse un ramo dei da Panico; nel
Trecento era già sotto la giurisdizione di Bologna dalla
quale fu tolto nel 1326 ad opera sempre dei Panico. Ripreso
da Bologna, fu riedificata la chiesa a pubbliche spese nel
1328. Nel 1565 di questa contea fu investita, da Clemente
VII, la famiglia Castelli. Del castello e della Chiesa di S.
Michele oggi non rimangono tracce alcune". Provincia di
Bologna, op. cit., p. 11.
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LE
QUERCE DI MONTE SOLE
SI
PIEGANO LE QUERCE
COME
SALICI
SUL
CUORE DELLE ROCCE
A
MONTE SOLE
HANNO
MEMORIA LE QUERCE, HANNO MEMORIA
MEMORIA
DI SANGUIGNE
UVE
PIGIATE
IN TORCHI AMARI
MEMORIA
DI STERMINI E DI PAURE
MEMORIA
DELLA SCURE
NEL
VENTRE DELLE MADRI
HANNO
MEMORIA LE QUERCE, HANNO MEMORIA
MEMORIA
DI RECINTI PROFANATI
MEMORIA
DELL'ANGELO E DEL PASTORE
CROCIFISSI
TRA
RELIQUIE DI SANTI
SULL'ALTARE
HANNO
MEMORIA LE QUERCE, HANNO MEMORIA
MEMORIA
DELL'INVERNO DESOLATO
MEMORIA
DELLA BIANCA
OSTIA
DI NEVE
E
DEL KYRIE DEGLI ANGELI
SUL
CORPO DEL PROFETA
DECOLLATO
ARDONO
LE QUERCE
COME
CERI
SUL
CANDELABRO DELLA NOTTE
A
MONTE SOLE.
CRISTO
FIGLIO DEL DIO VIVO, PIETA' DI NOI.
VERGINE
DEL GIGLIO E DELL'ULIVO, INTERCEDI PER NOI
BEATI
MARTIRI DI MONTE SOLE, PREGATE PER NOI.
LUCIANO
GHERARDI
Francesco
Pirini è uno dei testimoni sopravvissuti dalla
strage.
E' un grande esempio di umanità e di fede;
i giovani dei campi
estivi GIM e la redazione di Giovaniemissione
l'hanno incontrato svariate volte...
ecco un resoconto dopo uno dei molti incontri.

TESTIMONIANZA DI FRANCESCO PIRINI
Francesco
Pirini è un testimone, ancora in vita, che ha vissuto
nel 1944 le vicende note come la “strage di
Marzabotto”.
L’incontro
con Francesco è avvenuto proprio nei luoghi che in
quei tempi furono teatro di queste drammatiche
vicende. Decide di condividere la sua esperienza con
noi, un gruppo di giovani in cammino, che, con
l’aiuto della Parola, tenta di capire verso quale
direzione ci accompagna Dio. Sono ormai alcuni anni
che Francesco ha scelto di raccontare quei giorni
della sua vita ai giovani di diverse nazionalità,
cercando di soffermarsi sui sentimenti che lo hanno
accompagnato per tutti questi anni. Non deve essere
stato facile per lui scavare nei ricordi e aprirsi
agli altri: in quei giorni, infatti, ha perso tutta la
sua famiglia, tranne sua sorella Lidia. Nonostante le
difficoltà da lui incontrate, c’è una
responsabilità che chiede di essere adempiuta: il
dovere della testimonianza, perché la memoria non
scompaia.
La
chiave di lettura di tutto il suo racconto è il PERDONO,
passaggio obbligato perché si possa parlare di un
futuro senza rancore dove regni la pace.
Francesco
ha vissuto in prima persona l’esperienza del
perdono, ma ne ha acquisito consapevolezza solo
durante un episodio, che ricorda perfettamente,
avvenuto pochi anni fa. Nel marzo del 2002 un
giornalista, corrispondente per l’Italia di un
giornale tedesco, contatta Francesco e gli comunica
che sono emersi i nomi dei responsabili delle stragi
avvenute nel 1944 a Montesole: si tratta degli
ufficiali delle SS Meier e Rader. Meier è un uomo
ormai anziano affetto da paralisi, il quale, circa gli
avvenimenti di Montesole, sostiene freddamente: “Lo
rifarei”. Il giornalista dopo aver fatto questa
dichiarazione si rivolge a Francesco chiedendogli:
“Se lei si trovasse di fronte a Meier adesso, cosa
farebbe?”
Francesco
risponde: “Lo PERDONEREI!”
Questa
risposta non era affatto scontata…non era il
risultato di un atto di buonismo ma la conclusione di
un lungo percorso che ha portato Francesco a
raggiungere una pace interiore, liberandolo dal
rancore.
Mentre
ci raccontava abbiamo visto i suoi occhi pieni di
serenità e, soprattutto, ne abbiamo percepito la
trasparenza, che solo chi ha saputo davvero perdonare
può avere.
A
molti la sua scelta, sentita fino in fondo, è
sembrata impossibile e assurda: è molto più facile
concepire un sentimento di odio, anziché di perdono,
nei confronti di coloro che sono stati la causa di una
così grande sofferenza.
Francesco
non ha scelto la via più scontata, sicuramente il suo
percorso è stato più difficile ma ora riconosce di
aver trasformato il senso di oppressione che lo
accompagnava in una grande liberazione.
Quest’uomo
così semplice ci ha dato un grandissimo esempio di
una Fede pura e genuina, è stata sicuramente questa
una delle maggiori spinte che gli ha permesso di
rileggere i fatti sotto una luce diversa. Alle nostre
domande, in cui gli veniva chiesto come avesse fatto a
perdonare quell’uomo, benchè non si fosse pentito,
ha risposto da cristiano autentico: Meier - per lui -
resta una creatura di Dio e, in quanto tale, ha dentro
di sé anche dei sentimenti buoni.
Non nascondiamo la nostra difficoltà a comprendere un tale
pensiero, ma certamente Francesco è stato per noi un
grande testimone, perché la sua persona e le sue
parole sono la concretizzazione di una immensa Fede.
Francesco
parla ai giovani perché il futuro è nelle nostre
mani ed è convinto che solamente con la memoria
storica si potrà evitare di rifare gli stessi errori,
cercando, soprattutto, di rileggere gli avvenimenti
senza superficialità, ricordandosi che dietro ogni
evento ci sono delle persone.
Laura
e Francesca
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